C’è un giorno nell’anno in cui tutti siamo chiamati a rivolgere un pensiero a loro: a quelli che non sono più con noi sulla terra.

Da sempre gli uomini hanno tributato onore e memoria ai defunti, addirittura venerandoli, come facevano gli antichi romani con i “Lari”, i defunti buoni, custodi della famiglia e del focolare domestico.

Il culto degli antenati, di quelli che ci hanno preceduto e che stanno all’origine della catena che giunge fino a noi, ci inserisce in una storia di fede, amore e rispetto.

I nostri morti, infatti, vivono ancora. Vivono nella nostra memoria, innanzitutto, ma vivono anche nella vita eterna, che è il destino comune di tutti noi. Lo evocano anche i cipressi, che popolano i viali del campo santo, sin dai tempi dell’antica Grecia considerati il simbolo dell’immortalità, emblema della vita eterna dopo la morte. Con la loro verticalità assoluta, i cipressi indicano il movimento dell’anima che si avvia verso il regno celeste.

La fede cristiana illumina e dona nuovo significato al culto dei morti: “Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura” dice la preghiera della Chiesa per la liturgia dei defunti, che vengono definiti come coloro che “ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace”.

Nelle tombe dei nostri cari, confrotate di pianto di fiori e di lumini, si stabilisce una “corrispondenza d’amorosi sensi” (come direbbe il poeta Foscolo) non solo con la memoria di quanto essi hanno fatto in vita, ma con la loro anima immortale, che vive ancora.

La tradizione siciliana prevedeva, in questo giorno, che ai bambini si facessero trovare regali e dolci, donati loro dai “murtuzzi”. Con questa modalità semplice, si inspirava nei più piccoli la simpatia per i defunti, e si insegnava che essi continuano a vivere e hanno una funzione benevola su di noi.

Il culto dei defunti, infatti, è innanzitutto un giusto tributo a quanto i nostri antenati hanno fatto in vita per noi, ed è un gesto di profonda umanità che ci richiama al vero senso della vita, alla realtà per cui non ci siamo fatti da noi stessi, che abbiamo una storia che ci precede e ci insegna a dire grazie per essere immersi in questo ciclo immenso che è la vita. Ma è anche un richiamo all’essenziale, a ciò che conta di più, quando, eliminato ogni orpello, si resta nudi con la propria anima e il patrimonio di opere buone compiute. L’unico tesoro che ci segue dopo la morte.

Cosa dire ai “murtuzzi” in questo giorno? Gesù dinanzi alla tomba dell’amico Lazzaro pianse, prima di ordinarne la risurrezione, come si commosse per il figlio unico della donna vedova che veniva portato via per essere seppellito. Per loro Gesù prega il Padre suo. Non si tratta di un pianto disperato. E’ il pianto per la nostra fragilità, che si rasserena nella prospettiva della vita eterna che tutti ci attende. Ecco allora che, in questo giorno, possiamo stare davanti alle tombe dei nostri cari, pregando per loro, per la purificazione della loro anima, affinché possa avere accesso alla visione di Dio, e chiedendo a loro di intercedere per noi, in una “corrispondenza d’amorose preghiere”. In fondo, il cimitero è solo un “dormitorio” (come ricorda il termine di origine greca ‘koimeterion’), dove riposano i corpi dei defunti, in attesa della risurrezione della carne. A tale scopo, S. Agostino ricorda: “Una lacrima per i defunti evapora, un fiore sulla loro tomba appassisce. Una preghiera per la loro anima la raccoglie Iddio”.

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