Un matrimonio felice è possibile? Una ricetta cristiana

di Alessandro Scaccianoce

Vi racconto una storia personale, prima ancora che un libro. È quella di Costanza Miriano, 41 anni, giornalista del Tg3, definita “la mosca bianca”, della “rossa” redazione di Bianca Berlinguer che ho avuto il piacere di incontrare personalmente pochi giorni fa. Ma ciò che la definisce di più è l’essere sposa e mamma di 4 bambini. Va a Messa ogni giorno e recita il Rosario. Una  storia come tante? No, piuttosto una storia “semplicemente” straordinaria. Una donna che è più contenta di essere madre che professionista, che ambisce ad essere moglie e madre prima che Consigliera d’Amministrazione della RAI.

La sua esperienza personale è tutta racchiusa nel suo primo libro: “Sposati e sii sottomessa”, edito da Vallecchi, uscito un anno fa e che vanta oggi circa 20.000 copie vendute. Potremmo definirlo una ricetta tutta cristiana per un matrimonio felice. Il tutto condito in salsa ironica, con una forma leggera e appassionante. Una storia convincente, perché è fondamentalmente la storia della sua vita, cristallizzazione delle sue fatiche e gioie di mamma, madre e sposa. Il titolo del libro si richiama al celebre brano della lettera agli Efesini di San Paolo: Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie” (Ef, 5). Un brano controverso che ha fatto di San Paolo il bersaglio del movimento femminista, venendo tacciato in certi ambienti, anche ecclesiali, di misoginia.

In amore non c’è parità, è la tesi di fondo di Costanza Miriano. Uomo e donna sono strutturalmente diversi: Sposare un uomo – scrive Costanza -, che appartiene irrimediabilmente a un’altra razza, e vivere con lui, è un’impresa. Ma è un’avventura meravigliosa. È la sfida dell’impegno, di giocarsi tutto, di accogliere e accompagnare nuove vite. Una sfida che si può affrontare solo se ognuno fa la sua parte”.

Si richiama, in questo, alle prime pagine della Bibbia: “Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina lo creò”. La donna – sostiene la Miriano – è un aiuto, simile all’ uomo. Non una schiava, ma un aiuto. Chi aiuta è più robusto, più grande. Da qui l’idea fondamentale del libro che si ritrova in una delle tante lettere alle amiche che costellano il lavoro: “Dovrai imparare a essere sottomessa, come dice san Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base della vostra famiglia. Tu sarai le fondamenta. Tu sosterrai tutti, tuo marito e i figli, adattandoti, accettando, abbozzando, indirizzando dolcemente. E’ chi sta sotto che regge il mondo, non chi si mette sopra gli altri”. Nella vita di coppia, spiega, bisogna “concorrere al contrario”. Non una gara al predominio, ma all’accoglienza dell’altro. Così com’è. In questo Costanza accusa lucidamente la tendenza innata della donna a far da “crocerossina”, a voler cambiare l’uomo, anche se col buon intento di “farne una persona migliore”. “Le donne – dichiara -, per abitudine, per pigrizia (è più facile tenere un ruolo fisso) fanno le educatrici a tempo pieno. Una vocazione che può essere devastante se esercitata su esseri umani che hanno superato l’adolescenza”. Da qui uno dei tanti consigli pratici del libro:Quando lo devi criticare fallo con rispetto, e senza umiliarlo, se proprio sei sicura che la critica sia indispensabile. Se puoi aspettare domattina e meglio”. Lei stessa, confessa, più volte si morde “a sangue” la lingua per non dover accusare tutto quello che il marito non ha fatto o ha dimenticato. “L’uomo – dice Costanza – va amato così com’è”. Il beneficio è assicurato: “L’uomo dà con gioia se si sente libero, non ingabbiato, pressato, rimproverato. Troppe donne sono in lotta con i mariti e diventano insopportabili”.

Diversità, dicevamo, ma anche complementarietà di ruoli. Questi Universi di per sé diversissimi, se ben incastrati, possono produrre frutti meravigliosi: “L’uomo deve incarnare la guida, la regola, l’autorevolezza. La donna deve uscire dalla logica dell’emancipazione e riabbracciare con gioia il ruolo dell’accoglienza e del servizio. Sta alle donne, è scritto dentro di loro, accogliere la vita, e continuare a farlo ogni giorno. Anche quando la visione della camera dei figli dopo un pomeriggio di gioco fa venire voglia di prendere a testate la loro scrivania“.

Una tesi coraggiosa, che sfida il maschio a tornare in sé, rinnovando le sue responsabilità di uomo e di capofamiglia. Ma questo presuppone la voglia dell’uomo di avere “responsabilità”. Il modo migliore per convincere l’uomo a svolgere pienamente il ruolo di padre e marito è quello di dargli fiducia, di mostrare il lato più saggio, paziente e sottomesso della donna. Quando la donna si comporta così, assicura Costanza, l’uomo non resiste e corrisponde con le caratteristiche che gli sono proprie: generosità e forza. “Non è una tattica ipocrita – spiega – bensì la natura bella del genio femminile”. L’uomo non ama per primo, ma è mosso dalla donna ad amarla. E’ la donna che tiene acceso il fuoco, per dirla con Edith Stein. Se il marito ha un ruolo guida e decide, la moglie tiene insieme la famiglia.

Ed ecco uno dei passaggi fondamentali, a mio avviso: “La mia risposta a qualsiasi problema è una a scelta tra le seguenti: ha ragione lui; sposalo; fate un figlio; obbediscigli; fate un altro figlio; trasferisciti nella sua città; perdonalo; cerca di capirlo; e infine fate un figlio”. 

“Credo che le donne avrebbero tutto da guadagnare nel recuperare il loro ruolo, la loro vocazione all’accoglienza (quello che papa Wojtyla chiamava il genio femminile). Noi donne siamo fatte per questo, per accogliere la vita innanzitutto”. Non a caso, pur essendo stata tacciata di essere integralista e antifemminista (“parla come un pio Sacerdote degli anni ’40″ ha scritto una giornalista), anche i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che per una donna il momento più bello della vita è quello della nascita del proprio figlio.

Il libro ha aiutato molte famiglie in difficoltà. Il matrimonio per Costanza ha senso solo se cristiano, cioè se vi sono alla base delle motivazioni religiose solide. Vale la pena fare tutti gli sforzi possibili per salvare un matrimonio, o è meglio il divorzio? Un matrimonio riuscito, dice Costanza, richiede anni di lavoro, come per una grande cattedrale. Tuttavia, basta poco per distruggerlo”.  Una visione lontana dall’idea comune dell’amore come “scintillìo di batticuore, svolazzo di emozioni rosa, fru fru di occhiate e messaggini”. Ma l’amore, assicura Costanza, ha poco a che fare con questocon buona pace di Moccia, aggiungiamo noi: “L’amore è una scelta definitiva. Fatta di continuo superamento di se stessi e dei propri limiti“. Tra le frasi più belle del libro c’è sicuramente questa: “Lui (tuo marito) è la tua via per il cielo!”.

Il suo libro ha convinto anche alcuni ad affrontare il passo decisivo del matrimonio. Anzi, confessa, “il libro è nato dalle lettere accorate che scrivevo davvero a una mia carissima amica, per convincerla a sposarsi. Alla fine ce l’ho fatta, conquistando l’ambito trofeo di testimone della sposa”. Tutti vogliamo l’amore eterno. Nessuno che inizia una storia d’amore vorrebbe che fosse “a termine”. In fondo, è l’idea per cui si esiste solo in relazione a qualcuno.

E sul tema dei figli, cosa ne pensa, vi chiederete? La maternità e la paternità – dice Costanza – devono essere responsabili. È intelligente e prudente fare i conti con le proprie forze, ma la coppia deve anche essere aperta alla vita. Uno i figli non è che li programma più di tanto”.

Una donna che parla alle donne, ma, incredibilmente, le sue tesi trovano grande riscontro nell’universo maschile. Un compendio di pastorale familiare. Vissuta. Un libro da leggere e da consigliare (12,50 euro ben spesi!).

 “Sposati, amala e dona la vita per lei” è il probabile titolo del suo secondo libro. Già, perché la lettera agli Efesini prosegue: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per Lei”.

Il card. Cottier: Benedetto XVI è la colonna che tiene

da Avvenire
 
«Nelle grandi perplessità del nostro tempo, il Papa è la colonna che tiene. Lo fa con semplicità, senza fracasso». Lo ha detto il cardinale Georges Cottier, novant’anni ad aprile, per quasi vent’anni teologo della Casa Pontificia, a margine del quarto Concistoro di Benedetto XVI. «E’ stato evidente – ha detto – come la sua principale preoccupazione sia che i cristiani tornino ai temi centrali della fede».

Come ha visto il Papa in questi giorni?
Mi ha colpito la sua serenità. Certamente soffre di tutte le cose che sono state dette dai media in questi giorni, ma il fondo dell’animo è sereno. È la forza dello Spirito Santo che guida la sua vita. È la sua fede. La vocazione specifica di Pietro è di sostenere la fede dei fratelli. Ecco, in tutte le difficoltà, in tutte le grandi perplessità, lui è la colonna che tiene. Può apparire un po’ stanco, ma in questi giorni ha fatto una sintesi stupenda di quel che dev’essere l’atteggiamento dei credenti, non cercare mai potere ma il servizio, fino al martirio se necessario, sull’esempio di Gesù. L’opinione pubblica superficiale si interessa a certe cose, ma l’interesse della Chiesa che professa la sua fede in Gesù è un altro. Ed è bellissima la testimonianza di quest’uomo che umile, semplice, modesto, ha questa forza spirituale così intensa, capace di trasmettere pace.

Insomma, si può dire che, per lui, è un modo di andare “oltre”.
Sì, certamente. Lui lascia passare queste “ondate” che vorrebbero scuotere la Chiesa, questo grande agitare le acque, perché sa che il movimento di fondo va oltre. Mi è capitato di riflettere nei giorni scorsi su tutto questo, e proprio durante le giornate del Concistoro, confrontandomi con altri confratelli, ho constatato che non ero stato il solo ad avere un certo pensiero. Che è questo: in tutto l’agitarsi attorno alla Chiesa, si può vedere l’opera del maligno al lavoro. Nel senso che se la Chiesa fosse assopita nella mediocrità, o occupata solo di intrighi, rivalità, il diavolo non avrebbe molto da fare. Ma se agita molto le acque allora vuol dire che c’è vitalità nella Chiesa, che il maligno vuole contrastare. E questa vitalità è la forza della fede, è la vita cristiana che si manifesta in tutto il mondo.

Dove si vede questa vitalità?
Proprio qualche tempo un confratello, che viaggia molto, mi parlava di come, in tutto il mondo, i giovani abbiano in qualche modo reinventato il senso dell’adorazione eucaristica. Ecco, questi sono davvero segni di grande vitalità, è lì che è la realtà della Chiesa: una realtà che non dev’essere offuscata dai peccati dei cristiani. Ed è questo in fondo il mistero della Chiesa, che è santa e che ha dei membri che sono peccatori, ma sono chiamati a divenire santi. Allora se è a questo che tutti siamo chiamati, alla santità, siamo allora chiamati anche a dare testimonianza, ad avere una vita coerente con quello che professiamo. Il Papa, anche in questi ultimi giorni, ha citato la parola di Paolo VI, che diceva la nostra epoca è più sensibile ai testimoni che ai maestri, e ancor di più ai maestri che siano anche testimoni. Ecco, questo dovrebbe essere il programma di tutti noi. Di tutti i cristiani, ma certamente ancora di più di quanti abbiamo responsabilità particolari.

Quale esempio ci dà Benedetto XVI?
Un esempio grandissimo, quotidiano. Ha 85 anni, come ho detto prima a volte appare stanco, e ciò è del tutto normale; i falsi romanzi che si sono sentiti in giro, anche a questo riguardo, certamente lo fanno star male… Però noi vediamo come, alla sua età, riesce a fare delle cose straordinarie: l’abbiamo visto a Madrid, o in Germania, dove ci ha ricordato che le strutture più belle, se sono vuote di fede, non valgono nulla. Lo abbiamo visto quando è andato in visita a Rebibbia. E tra un po’ andrà in Messico e a Cuba. Le sue catechesi del mercoledì sono straordinarie. Ecco, dobbiamo guardare a queste cose. Che lui fa sempre con questa idea guida, che il problema fondamentale, specialmente dell’Europa e dell’Occidente è il bisogno della rievangelizzazione, a causa della perdita della fede. È questa la linea di forza del suo pontificato, questo invito a ri-guardare all’amore di Gesù, all’Eucaristia, ai temi centrali della fede cristiana. È di questo che parla il Papa, perché è questo che interessa il mondo

Tradizione e innovazione nella Santa Liturgia

Redazione SME

Siamo lieti di pubblicare questa intervista in esclusiva concessa a Fides et Forma da Mons. Nicola Bux, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Santo Padre e teologo di notevole fama già ospite a Biancavilla dell’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” lo scorso Agosto in occasione della Grande Festa Estiva in onore della Madonna dell’Elemosina.

Don Bux ha pubblicato recentemente il volume “La Riforma di Benedetto XVI” edito per i tipi della Piemme che sarà presto presentato nella sua edizione spagnola, con prefazione di S.Em. il Cardinale Canizares Llovera a Madrid e Siviglia.

A distanza di tempo dalla pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” si può parlare di un vero e proprio fervore liturgico, teso alla riscoperta dei tesori millenari del culto cattolico. Don Nicola Bux, professore della Facoltà Teologica Pugliese, nonché Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice è un testimone eccellente di questo fervore. Il suo recente saggio dal titolo rivelatore “La Riforma di Benedetto XVI” edito in Italia per i tipi della Piemme è già alla seconda edizione e nuove edizioni in varie lingue sono in corso di pubblicazione.

Don Bux, come spiega questo successo della “riforma” di Papa Benedetto, come lei stesso l’ha autorevolmente definita? E perché questo termine: “riforma”?

Il Santo Padre spiegando nella Lettera ai vescovi perché ha ritenuto una “priorità” la remissione della scomunica, scrive: “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”. Ora, un canto attribuito a san Paolino da Nola dice: Ubi charitas et amor Deus ibi est. Non dovremo quindi dilatare gli spazi dell’amore perché Dio sia presente nel mondo? Questo il senso del gesto del Pontefice. Ma egli aggiunge che si deve aprire l’accesso “Non ad un qualsiasi dio, ma a quel dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto”. Ora, non è questo il senso vero della Liturgia? Far incontrare la presenza di Dio all’uomo che cerca la Verità, il suo Mistero presente che precede sempre la nostra esistenza nel mondo? Il Concilio approvò per primo la Costituzione liturgica anche per questa ragione: la Chiesa deve parlar di Dio all’uomo, farglielo incontrare. L’uomo cerca la Bellezza “Veritatis splendor”: la “riforma” se non servisse a ciò sarebbe inutile maquillage per esibire meglio noi stessi. Ma la vera riforma mira a dare a Dio il posto che gli spetta prima di tutto e al centro di tutto. In realtà riforma significa ri-forma (“ritorno alla bellezza”), senza passatismi inutili o idee di restaurazione.

Tradizione e innovazione sono dunque espressioni da dimenticare?

Tutt’altro. La migliore definizione della tradizione l’ha data san Paolo:”Ho ricevuto dal Signore quanto vi ho anche trasmesso”(1 Cor 11,23).L’Apostolo si riferisce alla fractio panis, l’eucaristia che è il centro della sacra liturgia. Per questo la liturgia si riceve dalla Tradizione che è fonte della Rivelazione insieme alla Scrittura. Ora, traditio viene da tradere, un verbo di movimento che, per essere tale, implica cambiamento e vita, trasporto di cose antiche e nuove, perché Egli, il Verbo eterno, fa nuove tutte le cose (Ap 21..). Qui la tradizione diventa innovazione che non è una cosa diversa che viene dal mondo, da fuori, ma da dentro, perciò in-novazione, da Colui che è il Vivente. Mons. Piero Marini ha recentemente affermato in una conferenza che sulla tradizione c’è molta confusione. Gli do ragione, anzi, mi piacerebbe che un giorno potessimo colloquiare su questo proprio per contribuire a pacificare gli spiriti, con verità e amore. Noi sacerdoti che serviamo nel Corpo mistico di Gesù Cristo siamo chiamati a dare l’esempio, soprattutto praticando la riconciliazione.

Negli ultimi mesi le celebrazioni della Messa nella forma straordinaria sembrano essersi diffuse e non sono più riservate a pochi appassionati, bensì promosse da personalità di alto profilo. Solo nelle scorse settimane abbiamo avuto gli splendidi esempi del Card. Canizares Llovera e del Card. Zen che hanno voluto rimarcare la forza liturgica del rito antico. Dunque davvero, come affermava l’allora Cardinal Ratzinger, “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”?

La ragione d’essere dell’episcopato è nell’essere uno col Capo del collegio, il Santo Padre. Un vescovo che disobbedisce – come un prete che facesse altrettanto col vescovo – è come un membro disarticolato dal corpo e reca scandalo ai fedeli. Quindi, il Prefetto del Culto divino, – al quale va in queste ore in cui è ricoverato al Policlinico Gemelli il mio pensiero e la mia costante preghiera – e gli altri ecclesiastici non fanno altro che il proprio dovere dando l’esempio. Per edificare il Regno e la Chiesa, è più importante l’obbedienza umile o la mia opinione fosse anche teologicamente attrezzata? Il fatto che il Santo Padre non abbia imposto, ma proposto la ripresa della Messa gregoriana – così amo chiamarla con Martin Mosebach perché risale a Gregorio Magno – sta avendo e avrà un effetto trainante ancora più grande. Perché i vescovi temono di tornare indietro? Non voleva la riforma liturgica ripristinare anche l’antico? Cosa di più venerabile della Messa di san Gregorio? Non dovremmo imitare lo scriba evangelico che trae dal tesoro cose nuove e antiche? Abbiamo incentivato musei diocesani ove ammirare le bellezze che prima erano nelle chiese e i concerti per ascoltare le musiche sacre che prima si eseguivano nei riti. Nei musei e ai concerti vanno solo gli appassionati, mentre alla liturgia vanno tutti. Ha senso privare il popolo di ciò che gli spetta, favorendo quasi una Chiesa d’èlite? Piuttosto, vescovi e clero, guardiamo il grande movimento di giovani che si è creato intorno alla messa gregoriana, in crescendo continuo –basta andare su internet- già sono i giovani e non nostalgici. Far finta di non vedere è grave per chi per definizione deve episcopein, osservare attorno, monitorare. Lo rifiuteremo solo perché non è nato da me o non corrisponde alla mia sensibilità? Chi mi conosce, sa che da giovane laico e poi chierico sono stato tra i promotori in diocesi e oltre della riforma liturgica: questa ora continua mettendo insieme nuovo e antico, agganciandosi meglio al dogma: è noto il rapporto di dipendenza tra liturgia e regola di fede. Non a caso un aspetto quasi sempre tralasciato nella polemica è quello relativo alle messe private. Il Motu Proprio infatti contempla l’uso del messale del Beato Giovanni XXIII anche per le messe “senza il popolo”, ovvero quelle che i sacerdoti celebrano privatamente. Ciò dimostra che l’uso del messale antico non è solo collegato ad un discutibile amore per i formalismi e l’aspetto esteriore della celebrazione, bensì ripristina la comunione del singolo sacerdote con tutti i cristiani nello spazio e nel tempo, mettendolo in comunicazione con il passato, con i Santi e con i martiri. Di qui ad esempio la decisione del Card. Zen di celebrare l’ultimo pontificale da Arcivescovo di Honk Hong secondo il rito straordinario. E’ un’esigenza profondamente spirituale. D’altra parte l’universalità della lingua latina dovrebbe essere di stimolo in un mondo globalizzato, affinché la Chiesa, almeno nel rito, si esprima con una sola lingua.

Sono ancora in molti però a leggere in questa promozione del rito antico una sorta di tradimento dello spirito del Concilio. Crede che il dialogo sia una strada percorribile per sanare le fratture e le reciproche diffidenze?

Siccome lo spirito del Concilio non può essere diverso dallo Spirito Santo – se lo fosse sarebbe spirito di errore e non di verità, come scrive la 1 Lettera di Giovanni – non si può pensare alcuna frattura e discontinuità tra la messa celebrata in quell’assise e quella poi aggiornata da Paolo VI. Dunque nessun tradimento ma tutta tradizione. Sebbene, se si va a studiare, non tutto quello che Paolo VI aveva prescritto è stato attuato, e quindi attende di esserlo per portare a compimento la riforma liturgica.Per esempio, egli aveva stabilito che i messali nazionali recassero sempre il testo latino a fronte: questo per impedire le traduzioni libere che hanno prodotto e producono non poco sconcerto. A chi si preoccupa e vede in questa riforma un tentativo di erosione del Concilio bisognerebbe ricordare il monumentale discorso del Papa alla Curia Romana del dicembre 2005 che ha superato fermamente questa contrapposizione introducendo l’ermeneutica della continuità . Ad ogni modo è sempre bene ricordare che nella Chiesa c’è libertà di critica se fatta con verità e amore, purché non si voglia censurare o demonizzare chi non la pensa come me. Per questo il Papa ha mostrato ancora una volta la sua lungimiranza, per dimostrare che “nessuno è di troppo nella Chiesa”. Io auspico sempre un confronto sereno e un approfondito e rispettoso dibattito. Pax et concordia sit convivio nostro, dice sant’Agostino.

Lei ha affermato: “L’uso della lingua parlata non è necessariamente sinonimo di comprensione. Oltre l’intelligenza e il cuore, per entrare in essa ci vuole anche immaginazione, memoria, e tutti i cinque sensi.” Crede che la riscoperta del rito antico possa aiutare a vivere con maggiore partecipazione anche la Messa celebrata nella forma ordinaria?

Per intenderci, la Sacra Liturgia è l’attrattiva della Bellezza che a sua volta è il percorso ragionevole alla Verità. La Bellezza è lo splendore della Verità. Come ho già detto in altra sede, proviamo con un sillogismo: siccome la sacra e divina liturgia – che include arte e musica sacra – è Bellezza, senza Verità non c’è liturgia, culto a Dio. E’ proprio Gesù che lo ricorda nel vangelo di san Giovanni: “I veri adoratori, adoreranno il Padre in spirito e verità”. Ma per trovare la Verità bisogna conoscere le creature. Questo solo cambia la vita mia e sua. L’ho constatato ancora in tanta gente che ha partecipato con me alle celebrazioni pasquali. Che il rito sia antico o nuovo deve guardare nell’unica direzione possibile, deve essere rivolto al Signore, interiormente ed esteriormente. Se oggi i sacerdoti quando concelebrano si orientano in direzione dell’ambone per ascoltare il Vangelo, perché non potrebbero farlo verso l’altare e la Croce per offrire l’eucaristia? Fare questo aiuta a convertirsi. Seguendo la sacra liturgia, ad un certo punto i riti e i simboli spariranno, svelando il significato; il Mistero penetrerà allora in tutte le direzioni: sarà il cielo sulla terra, la rappresentazione del Paradiso.

L'indulgenza davanti al crocifisso

L’Enchiridion indulgentiarum (ediz.1999) ricorda che:

8 § 1. Plenaria indulgentia conceditur christifideli qui …
… qualibet feria sexta temporis Quadragesimae, orationem En ego, o bone et dulcissime Iesu, coram Iesu Christi Crucifixi imagine post communionem pie recitaverit;

E’ concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli che, in qualsivoglia Venerdì del tempo di Quaresima, avranno recitato piamente dopo la comunione e davanti all’immagine di Gesù Crocifisso, la preghiera En ego, o bone et dulcissime Iesu…”

“Eccomi, o mio amato e buon Gesù, che prostrato alla tua santissima Presenza ti prego con il fervore più vivo di stampare nel mio cuore sentimenti di fede, di speranza, di carità, di dolore dei miei peccati e di proponimento di non offenderti più, mentre io con tutto l’amore e con tutta la compassione vado considerando le tue cinque piaghe, cominciando da ciò che disse di Te, o mio Gesù, il santo profeta Davide: “Hanno forato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa”.

Don Bux: vecchio e nuovo rito si completano e si arricchiscono

Redazione SME

 
Pubblichiamo un’intervista a don Nicola Bux, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Santo Padre e teologo di notevole fama, che nell’agosto 2011 è stato in visita a Biancavilla, nell’ambito delle celebrazioni in onore della Madonna dell’Elemosina.

Don Nicola, cosa vuol dire l’importanza della liturgia nella vita della Chiesa? e cosa significa, in particolare, la riforma di Benedetto XVI di cui si parla?  

Dice il Santo Padre: “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”. A noi, pertanto, spetta il compito di dilatare gli spazi dell’amore perché Dio sia presente nel mondo. Ma egli aggiunge che si deve aprire l’accesso “Non ad un qualsiasi dio, ma a quel dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto”. Ora, non è questo il senso vero della Liturgia? Far incontrare la presenza di Dio all’uomo che cerca la Verità, il suo Mistero presente che precede sempre la nostra esistenza nel mondo? Il Concilio approvò per primo la Costituzione liturgica anche per questa ragione: la Chiesa deve parlar di Dio all’uomo, farglielo incontrare. L’uomo cerca la Bellezza “Veritatis splendor”: la “riforma” se non servisse a ciò sarebbe inutile maquillage per esibire meglio noi stessi. Ma la vera riforma mira a dare a Dio il posto che gli spetta prima di tutto e al centro di tutto. In realtà riforma significa ri-forma (“ritorno alla bellezza”), senza passatismi inutili o idee di restaurazione.

Perchè allora è impotante parlare di tradizione?

La migliore definizione della tradizione l’ha data san Paolo:”Ho ricevuto dal Signore quanto vi ho anche trasmesso”(1 Cor 11,23).L’Apostolo si riferisce alla fractio panis, l’Eucaristia che è il centro della sacra liturgia. Per questo la liturgia si riceve dalla Tradizione che è fonte della Rivelazione insieme alla Scrittura. Ora, traditio viene da tradere, un verbo di movimento che, per essere tale, implica cambiamento e vita, trasporto di cose antiche e nuove, perché Egli, il Verbo eterno, fa nuove tutte le cose (Ap 21..). Qui la tradizione diventa innovazione che non è una cosa diversa che viene dal mondo, da fuori, ma da dentro, perciò in-novazione, da Colui che è il Vivente. Noi sacerdoti che serviamo nel Corpo mistico di Gesù Cristo siamo chiamati a dare l’esempio, soprattutto praticando la riconciliazione.

Come interpreta il continuo diffondersi delle celebrazioni della Messa nella forma straordinaria? E perché tanto successo tra le giovani generazioni?

Il fatto che il Santo Padre non abbia imposto, ma proposto la ripresa della Messa gregoriana – così amo chiamarla con Martin Mosebach perché risale a Gregorio Magno – sta avendo e avrà un effetto trainante ancora più grande. Perché qualche vescovo teme di tornare indietro? Non voleva la riforma liturgica ripristinare anche l’antico? Non dovremmo imitare lo scriba evangelico che trae dal tesoro cose nuove e antiche? Piuttosto, guardiamo il grande movimento di giovani che si è creato intorno alla messa gregoriana, in crescendo continuo –basta andare su internet – già sono i giovani e non nostalgici. Far finta di non vedere è grave per chi per definizione deve episcopéin, osservare attorno, monitorare. Lo rifiuteremo solo perché non è nato da me o non corrisponde alla mia sensibilità? Chi mi conosce, sa che da giovane laico e poi chierico sono stato tra i promotori in diocesi e oltre della riforma liturgica: questa ora continua mettendo insieme nuovo e antico, agganciandosi meglio al dogma: è noto il rapporto di dipendenza tra liturgia e regola di fede. Non a caso un aspetto quasi sempre tralasciato nella polemica è quello relativo alle messe private. Il Motu Proprio infatti contempla l’uso del messale del Beato Giovanni XXIII anche per le messe “senza il popolo”, ovvero quelle che i sacerdoti celebrano privatamente. Ciò dimostra che l’uso del messale antico non è solo collegato ad un discutibile amore per i formalismi e l’aspetto esteriore della celebrazione, bensì ripristina la comunione del singolo sacerdote con tutti i cristiani nello spazio e nel tempo, mettendolo in comunicazione con il passato, con i Santi e con i martiri. D’altra parte l’universalità della lingua latina dovrebbe essere di stimolo in un mondo globalizzato, affinché la Chiesa, almeno nel rito, si esprima con una sola lingua.

Don Nicola, come si concilia la diffusione della messa gregoriana con lo “spirito del Concilio”?
Siccome lo spirito del Concilio non può essere diverso dallo Spirito Santo – se lo fosse sarebbe spirito di errore e non di verità, come scrive la 1 Lettera di Giovanni – non si può pensare alcuna frattura e discontinuità tra la messa celebrata in quell’assise e quella poi aggiornata da Paolo VI. Dunque nessun tradimento, ma tutta tradizione! Sebbene, se si va a studiare, non tutto quello che Paolo VI aveva prescritto è stato attuato, e quindi attende di esserlo per portare a compimento la riforma liturgica.Per esempio, egli aveva stabilito che i messali nazionali recassero sempre il testo latino a fronte: questo per impedire le traduzioni libere che hanno prodotto e producono non poco sconcerto. Io auspico sempre un confronto sereno e un approfondito e rispettoso dibattito. Pax et concordia sit convivio nostro, dice sant’Agostino.

Quali vantaggi possono derivare dalla diffusione della liturgia gregoriana per la celebrazione in forma straordinaria?

Per intenderci, la Sacra Liturgia è l’attrattiva della Bellezza che a sua volta è il percorso ragionevole alla Verità. La Bellezza è lo splendore della Verità. Come ho già detto in altra sede, proviamo con un sillogismo: siccome la sacra e divina liturgia – che include arte e musica sacra – è Bellezza, senza Verità non c’è liturgia, culto a Dio. E’ proprio Gesù che lo ricorda nel vangelo di san Giovanni: “I veri adoratori, adoreranno il Padre in spirito e verità”. Ma per trovare la Verità bisogna conoscere le creature. Questo solo cambia la vita mia e sua. Che il rito sia antico o nuovo deve guardare nell’unica direzione possibile, deve essere rivolto al Signore, interiormente ed esteriormente. Se oggi i sacerdoti quando concelebrano si orientano in direzione dell’ambone per ascoltare il Vangelo, perché non potrebbero farlo verso l’altare e la Croce per offrire l’eucaristia? Fare questo aiuta a convertirsi. Seguendo la sacra liturgia, ad un certo punto i riti e i simboli spariranno, svelando il significato; il Mistero penetrerà allora in tutte le direzioni: sarà il cielo sulla terra, la rappresentazione del Paradiso.

Biancavilla: Oggi la festa di San Zenone, memoria dell'arrivo dei Padri greco-albanesi

Oggi, 14 febbraio, per antica tradizione a Biancavilla si fa memoria di San Zenone, soldato  Martire del IV secolo, Patrono della Comunità greco-albanese che alla fine del sec. XV si stabilì nelle terre di Callìcari. Secondo la tradizione, la data del 14 febbraio celebra il giorno dell’arrivo dei Padri fondatori della città in queste terre che, insieme alla devozione alla Madonna dell’Elemosina, recarono con sè una  reliquia (un dente molare) e una piccola statuetta in bronzo del Santo soldato. Come risulta dagli “Acta Martyrum”, infatti, la data del martirio di san Zenone è il 23 giugno. 

Nell’ultimo decennio le celebrazioni esterne in onore del Santo sono collocate all’interno delle celebrazioni patronali dell'”Ottobre Sacro”, con la processione delle Reliquie dei Santi Zenone e Placido per le vie cittadine. Da alcuni anni, per volere del prev. Agrippino Salerno, il 2 ottobre è stata introdotta la processione del simulacro cinquecentesco (l’opera d’arte più antica che si conserva a Biancavilla).

Cenni biografici della vita di San Zenone

Secondo le poche fonti disponibili, l’esperienza storica di san Zenone si colloca nel III secolo dopo Cristo nei pressi di Filadelfia d’Arabia (l’attuale Amman, capitale della Giordania). In quella regione del Mar Morto, allora sotto il dominio dell’impero romano, nacque Zenone da nobile famiglia pagana e, cresciuto, fece divenne soldato, conseguendo alti gradi. La sua conversione al cristianesimo avviene proprio nel periodo della sua militanza. Dopo l’incontro con Cristo e il Battesimo, egli decise di concedere la libertà ai suoi servitori. Tuttavia, il giovane servo Zena, anch’egli convertito al cristianesimo, decide liberamente di non  lasciare la casa del suo padrone, rimanendogli accanto fino al martirio. La grande persecuzione dell’imperatore Diocleziano, infatti, arrivò perfino in quelle terre. E quando il generale Massimiano,  facendo visita in Arabia, ordinò a tutti i sudditi dell’Impero di adorare gli dei pagani, Zenone offrì la sua limpida e coraggiosa testimonianza di fede, offrendosi liberamente al martirio, insieme al suo fedele compagno Zena.

Massimiano, infatti, indignato per il rifiuto del giovane soldato, lo spogliò delle insegne militari  e lo sottopose ad atroci tormenti. Non avendo ottenuto quanto voleva, lo fece rinchiudere  in prigione, insieme al suo servo Zena. Quindi, fece sospendere entrambi ad un legno con ai piedi sassi pesanti, e ordinò di accendere sotto il loro piedi del fuoco, mentre venivano battuti con verghe. Il 23 giugno del 304 Zenone e Zena furono decapitati. I loro corpi furono raccolti da alcune vergini cristiane che diedero ad essi degna sepoltura.
 

In Basilica Santuario, cuore della devozione cittadina, quest’anno la festa di San Zenone coicide con l’ultimo giorno delle Sacre Quarantore. Ma tra l’Eucaristia e il culto dei martiri vi è uno strettissimo legame.

Davvero i Santi e i Martiri ci dicono le radici cristiane della nostra terra, che  ha custodito col sangue dei martiri e la testimonianza dei santi la retta comprensione della fede. Per celebrare degnamente i santi misteri non basta il ministro della Parola e il popolo. Occorre un luogo conveniente e un altare con le reliquie dei martiri e la Croce. Questo dice il sensus fidei più antico, dove la Chiesa depositaria della Parola del Signore celebrava l’Eucaristia sulla memoria viva di coloro che quella Parola avevano vissuto fino alla fine, fino al dono totale di sé.

Cristo, morto e risorto, si fa continuamente Eucaristia e gesti sacramentali. Anche questo ci dicono – con tutta la loro vita – i nostri Martiri. Nutrendoci dell’Eucaristia noi veniamo cristificati, perché il primo martire è Cristo.