Redazione SME

Oggi inizia la Quaresima, tempo favorevole per la conversione al Signore Gesù, per aprirsi alla sua azione e alla Sua Signoria sulla nostra vita. Perché solo nell’apertura a Cristo può esserci un’esistenza autentica, piena e compiuta. Questo periodo è segnato, oltre che da un invito ad un maggior ascolto della Parola di Dio e da un più rafforzato impegno di preghiera, da un richiamo a pratiche penitenziali. Dinanzi ad un contesto culturale che esalta l’edonismo,  vogliamo offrire ai nostri lettori alcuni chiarimenti sul significato e il valore della penitenza a partire da brani scelti di un’omelia di Papa Paolo VI del 29 febbraio 1968:

Perché si deve far penitenza? Per qual motivo dobbiamo rendere amara e triste la vita quando è così piena di malanni e difficoltà? Perché, dunque ci dovremmo infliggere volontariamente qualche sofferenza, aggiungendola alle molte già esistenti?

Piuttosto, se guardiamo proprio l’onda dello spirito moderno, noteremo la ricerca del benessere, degli agi; la cura di eliminare ogni inconveniente, ogni malattia, ogni ostacolo. Si è come dominati dall’aspirazione verso una prosperità che finisce per introdursi anche nella nostra vita spirituale, religiosa. Magari inconsapevolmente, si assorbe un naturalismo, una simpatia con la vita materiale, al punto che il fare penitenza appare incomprensibile oltre che molesto.

Tutto ciò ci sospinge ad una breve analisi; a chiederci, infatti, quale è il fondamento della grande esigenza ricordataci dalla Chiesa: in una parola, che cosa è la penitenza?

S. Tommaso definisce la penitenza «Dolor voluntatis»: un dolore della volontà. Per far penitenza bisogna entrare in questa forma di vita spirituale, d’un dolore nella volontà, e quindi libero ed accettato, quasi imposto da chi compie l’atto di penitenza. (…).

Ciò suppone un male, di cui oggi abbiamo minore coscienza, da deplorare, da rimuovere espiando e riparando. Come si chiama questo atto riflesso della nostra psicologia che avverte tale necessità dolorosa? Si chiama il concetto, il «senso del peccato». È l’avvertire la propria coscienza non tranquilla; l’ansia di rimediare a qualche cosa che dà un profondo disagio all’anima. Ora, questo senso del peccato è venuto quasi meno, anche in non poche coscienze cristiane. (…).

Papa Pio XII, di v. m., ebbe a scrivere (…) una frase che divenne celebre: «Il peggiore peccato dell’età moderna è quello di aver perduto la coscienza del peccato».  (…).

E c’è di peggio. Si arriva ad espressioni addirittura enormi, secondo cui il peccato viene giustificato come un atto di forza e di liberazione da qualsiasi vincolo e prescrizione. Occorre – si dice – affrancarsi dagli scrupoli e dai timori, e diventare liberi. In una parola, il disagio, una volta sentito per la mancanza che il peccato comporta, oggi viene respinto.

Il peccato è una nozione prettamente cristiana. (…). Il peccato implica due elementi veramente religiosi: il primo è quello del rapporto fra noi e Dio: e non soltanto il Dio della legge, il Dio potente ed esigente, il Dio della giustizia, che agli atti umani fa corrispondere una sanzione inesorabile e infallibile, ma il Dio dell’amore, della bontà; il Dio che per cancellare i nostri peccati è venuto fra noi ed ha preso sopra di Sé il peso delle nostre colpe e le ha espiate con la sua Morte. Ciò indica appunto quale è l’atteggiamento benigno di Dio verso i nostri peccati. Egli non li può ignorare; non sarebbe più Dio se fosse indifferente, assente. Ma, ripetiamo, è il Dio della bontà, dell’amore infinito sino ad immolarsi sul patibolo della Croce per cancellare i nostri peccati. Adunque occorre ripristinare nelle nostre anime il senso del peccato: e cioè la coscienza sensibile di questo nostro rapporto con Dio.

L’altra nozione che il peccato comporta è di grandezza straordinaria. Esso dice come sia un dramma la colpa umana, poiché è nel giuoco della libertà. Il peccato è un abuso della nostra libertà responsabile. È una sfida a Dio; la trasgressione della sua legge; l’indifferenza al suo amore: è, quindi, un ritorcersi del male sopra noi stessi. Il male nostro vero è il peccato da noi commesso.

Ecco, allora, che la penitenza diventa non soltanto un rimedio, ma un bisogno. Dobbiamo fare penitenza per denunciare a noi stessi, al Cielo, alla terra, che siamo gente miserabile. Ci incombe l’obbligo d’implorare pietà e dimostrare con qualche nostro atto che ripudiamo il male compiuto e il male che siamo capaci di fare. (…).

Procuriamo, in questa Quaresima, di accostarci con coscienza buona e nuova alla Confessione; di riesaminare le forme con cui la facciamo: non per rendere scrupolosa o sottile l’accusa e l’analisi psicologica delle nostre colpe, ma per avvertire la grandezza dell’uomo che si inginocchia davanti a Dio, riconosce il dramma della sua salvezza compromessa dal peccato, e si sente riabilitato dalla clemenza del Signore, offertaci nel Sacramento della Penitenza.

Brevi cenni storici sull’origine della Quaresima e la pratica del digiuno penitenziale.

Fin dai primissimi tempi del Cristianesimo, in preparazione alla S. Pasqua, cominciò a praticarsi un periodo di preparazione per disporsi sempre meglio al mistero centrale della Redenzione del Cristo. Nel cristianesimo primitivo, inoltre, il periodo della Quaresima era dedicato a preparare i catecumeni, che nel giorno della Pasqua avrebbero ricevuto il battesimo e sarebbero stati accolti nella Chiesa.

Questo periodo si andò allungando fino a comprendere 6 settimane:  si ebbe così la Quaresima (dal latino “Quadragesimae”), cioè 40 giorni di preparazione al Mistero Pasquale. La Quaresima comporta per i fedeli due distinte pratiche religiose: il digiuno e la penitenza. Il digiuno, in particolare, fu introdotto nella Chiesa intorno al IV sec.

Il digiuno cominciava con la Prima Domenica di Quaresima e si concludeva all’Alba della Resurrezione di Gesù. Senonché, siccome la domenica era giorno festivo, e ad essa non si addiceva il digiuno quaresimale, allora per supplire ai 4 giorni di digiuno, che in tal modo venivano a mancare per avere il numero sacro di 40 giorni, si cominciò il digiuno quaresimale con il mercoledì antecedente alla Prima Domenica di Quaresima. Questo uso iniziò negli ultimi anni di vita di S. Gregorio Magno, che fu sommo pontefice dal 590 al 604 d.C. Quindi questo mutamento di iniziare la Quaresima al mercoledì, detto in seguito delle Ceneri, possiamo datarlo ai primissimi anni del sec. VII, e cioè proprio tra il 600 e il 604. Quel Mercoledì fu perciò chiamato Caput Jejunii, cioè inizio del digiuno quaresimale, oppure Caput Quadragesimae, e cioè inizio della Quaresima. Vi erano infatti eccellenti ragioni per spiegare il numero quadragenario sulla scorta delle Sacre Scritture.

Per 40 giorni e 40 notti era durato il diluvio che aveva sommerso la terra ed estinto l’umanità peccatrice (cfr. Gn. 7,12); per 40 anni il popolo eletto errò nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di entrare nella terra Promessa (cfr. Dt. 8,2); per 40 giorni Ezechiele giacque sul proprio fianco destro a raffigurare il castigo divino imminente sulla città di Gerusalemme (cfr. Ez 4,6); per 40 giorni Mosè digiunò sul Sinai prima di attendere la Rivelazione divina (cfr. Es. 24, 12-17); per 40 giorni viaggiò Elia nel deserto, per sfuggire alla vendetta della regina idolatra Jezabele ed essere consolato ed ammaestrato da Jahvè (cfr. 1Re 19,1-8); anche Gesù  trascorse 40 giorni e 40 notti nel deserto pregando e digiunando dopo il battesimo ricevuto nel Giordano e prima di iniziare la sua vita pubblica,(cfr. Mt 4,2).

In passato, durante il periodo quaresimale, non era consentito che un solo pasto al giorno. Questo unico pasto nel IV sec. si teneva dopo il tramonto del sole. In seguito fu permesso verso le 15. Al principio del secolo XVI venne concesso dalle autorità della Chiesa di aggiungere al pasto principale la cosiddetta “colatio”, leggera refezione serale. Temperandosi sempre più i rigori, la carne, che prima era assolutamente bandita dalla mensa durante la Quaresima, vi fu poi ammessa nel pasto principale fino a tre volte per settimana.

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