di Alessandro Scaccianoce

Ricordare p. Nino Tomasello non è facile. Perché ognuno di noi conserva un ricordo diverso, ed è stato segnato in vario modo da lui.
Dopo averlo scoperto in gioventù, come formatore ed educatore di coscienze, negli ultimi anni ho potuto accostare il suo cuore sacerdotale. Servendo come diacono all’altare durante le sue Messe, quotidianamente, specialmente in questo ultimo anno, ho potuto davvero scrutare la sua preghiera intima e il suo rapporto con il Signore.

P. Nino è sempre stato schivo, molto riservato nell’esternare i suoi sentimenti e le sue emozioni.
E anche nella preghiera preferiva non far vedere come si muoveva il suo intimo. Non a caso preferiva pregare davanti al tabernacolo quando la chiesa era ancora chiusa.

La sua era una fede limpida, cristallina e razionale, nutrita della Parola di Dio. Non amava fronzoli, nella vita come nella preghiera. Rifuggiva gli onori e le luci della ribalta. Qualunque essa fosse. Non amava i primi posti e le attenzioni sulla sua persona. Era l’antifariseo per definizione. Pregava di nascosto e in segreto faceva la sua carità. Come mi hanno testimoniato diverse persone, che in questi giorni mi hanno riferito di aver ricevuto da lui molti aiuti.




Dava il meglio di sé nella direzione personale, con consigli pratici. Essere sacerdote per lui era essenzialmente annunciare il Vangelo. Non amava perdere tempo in faccende burocratiche e viveva con insofferenza le “beghe amministrative”, che lo distoglievano dalla sua missione essenziale.

Aveva in mente una Chiesa comunionale, fondata sulla corresponsabilità dei laici. Amava il confronto aperto e schietto, non era ambiguo e non conosceva finzioni nel manifestare i suoi sentimenti. Lavorare insieme e puntare all’essenziale erano i suoi punti cardine di una Chiesa fresca, moderna, aperta al dialogo con tutti.

Questo ha cercato di fare. Anche con le parole. Ma soprattutto con il suo silenzio e il suo modo di agire, nel saper perdere e nel saper rinunciare. Forse non sempre compreso da una mentalità clericaleggiante, spesso più presente tra i laici che tra il clero stesso. Molto più avanti dei suoi tempi, credeva nella famiglia e nell’impegno sociale e politico. Accanto alla pila dei libri di teologia c’era sempre il quotidiano del giorno, perché la fede che non si incarna e che non diventa vita vissuta – diceva – non incide nella storia.

Su di lui puntò molto l’Arcivescovo Mons. Luigi Bommarito, che lo avrebbe voluto proporre anche per l’episcopato, come mi confidò candidamente alcuni mesi fa. Ovviamente, lui ricusò sul nascere la velleità dell’allora Arcivescovo di Catania.




Fu un piccolo, un bambino in senso evangelico, che faceva fatica a stare nel mondo dei grandi.
E più passavano gli anni, più aumentava la distanza tra il suo “piccolo mondo” e il mondo dei cosiddetti “adulti”, il mondo di chi si faceva guerra per il potere, dentro e fuori la Chiesa, di chi cercava onori e riconoscimenti, di chi rivendicava etichette e steccati. Il suo animo di fanciullo si dovette scontrare più volte con l’esperienza della disillusione. E lentamente si ripiegò su se stesso, per cercare di conservare intatto quel suo “piccolo mondo”, semplice e genuino fino alla fine. Alla vigilia di Natale con un filo di voce al telefono dichiarava: “se il Signore vuole, sono pronto anche ad andare da lui”.

Mi resta un dubbio: è stato un sacerdote dal cuore bambino, sopraffatto dal male del mondo (un male che alla fine gli ha tolto perfino il respiro)? O, forse, il male non è stato capace di vincere la sua “fanciullezza spirituale”, il suo essere figlio, in fiduciosa obbedienza e abbandono nelle mani del Padre? La fine dei giusti – dice il libro della Sapienza – è considerata una sciagura e una disgrazia dalla mentalità del mondo. Ma le anime dei giusti sono nelle mani di Dio. Io sono convinto che lui è stato un giusto, e che adesso riposa in Dio. Come un bambino nelle braccia di sua madre. Nei giorni scorsi ho rivisto il film “La vita è bella!”, in cui l’orrore dell’olocausto è raccontato con gli occhi di un bambino, che alla fine di quella tragica esperienza, vissuta come un gioco per la conquista di un carro armato, grida a squarciagola “abbiamo vinto!”. Padre Nino Tomasello è stato questo bambino, che ha attraversato il male del nostro tempo, da ultimo il Covid-19, e che, nella apparente tragedia della sua vicenda umana, ha vinto, perché è rimasto illeso e ha conservato il cuore piccolo. E – sulla promessa di Gesù – il Paradiso appartiene ai piccoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

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