La gioia di incontrare il Papa!

di Alessandro Scaccianoce

All’Udienza Generale del Santo Padre Benedetto XVI di mercoledì 1° agosto a Castel Gandolfo, tra gli oltre 1500 pellegrini, era presente la delegazione biancavillese composta dai membri dell’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” in pellegrinagghio “Ad Petri Sedem” in occasione del decimo anniversario della nascita del sodalizio. Per l’occasione, i fedeli hanno indossato lo scapolare con la medaglia argentea raffigurante la Madonna dell’Elemosina.

Ad accompagnare i fedeli biancavillesi c’erano il Prevosto Parroco e Assistente Spirituale, Don Pino Salerno, il Vicario foraneo, Don Giovanni Zappalà, e il Socio  Don Ambrogio Monforte. All’Udienza sono intervenuti anche il Sindaco di Biancavilla, Pippo Glorioso, e l’Assessore al Bilancio, Gaetano Sant’Elena

Alla delegazione si è unito anche S. E. Mons. Alberto Tricarico, Arcivescovo Titolare di Sistroniana, Nunzio Apostolico in Russia (nella foto in alto, al centro).

Ad accrescere la gioia dei fedeli anche la presenza di Angela Galizia (nella foto in alto, a destra), la giovane biancavillese, già membro dell’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina”, che si trovava a Roma in preparazione alla professione religiosa presso le Figlie di Maria Ausiliatrice, che ha avuto luogo stamane.

Al Papa sono stati offerti in dono una riproduzione dell’Icona bizantina della Madonna dell’Elemosina, un servizio di lini per la Messa, elegantemente ricamato e confezionato dalla Socia Sig.ra Piera Furnari Marcellino. L’Amministrazione Comunale ha offerto al Santo Padre una raffigurazione su pietra lavica ceramizzata dello stemma comunale di Biancavilla e la pubblicazione della tesi di baccellierato di Don Ambrogio Monforte sulla storia e la devozione dei biancavillesi per la Madonna dell’Elemosina.

La delegazione è stata salutata all’inizio dell’Udienza e ha fatto sentire la propria presenza e il proprio calore al Santo Padre intonando il “Christus Vincit” non appena è apparso sul portone del Palazzo Apostolico, anche grazie ad una fortunata vicinanza fisica con la sede del Papa, essendo tra le primissime file. Il canto sacro è stato riproposto nel momento in cui il Pontefice si è rivolto ai pellegrini di lingua italiana. All’omaggio canoro il Papa ha risposto con un illuminante sorriso, fermandosi ad ascoltare il canto dei fedeli biancavillesi

Un grande striscione, inoltre, campeggiava sulla piazza di Castel Gandolfo, recante la scritta: “Tu, Pietro, confermaci nella Fede –  Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” – BIANCAVILLA (CT)”.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha presentato la figura di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Vescovo e Dottore della Chiesa, nel giorno in cui la Chiesa ne fa memoria liturgica, soffermandosi in particolare sugli insegnamenti del santo riguardo alla preghiera.

Quindi ha rivolto un saluto in varie lingue ai gruppi di pellegrini presenti. L’Udienza si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

 

Di seguito, la catechesi del Santo Padre in lingua italiana:

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Cari fratelli e sorelle!

Ricorre oggi la memoria liturgica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Vescovo e Dottore della Chiesa, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, Redentoristi, patrono degli studiosi di teologia morale e dei confessori. Sant’Alfonso è uno dei santi più popolari del XVIII secolo, per il suo stile semplice e immediato e per la sua dottrina sul sacramento della Penitenza: in un periodo di grande rigorismo, frutto dell’influsso giansenista, egli raccomandava ai confessori di amministrare questo Sacramento manifestando l’abbraccio gioioso di Dio Padre, che nella sua misericordia infinita non si stanca di accogliere il figlio pentito.

L’odierna ricorrenza ci offre l’occasione di soffermarci sugli insegnamenti di sant’Alfonso riguardo alla preghiera, quanto mai preziosi e pieni di afflato spirituale. Risale all’anno 1759 il suo trattato Del gran mezzo della Preghiera, che egli considerava il più utile tra tutti i suoi scritti. Infatti, descrive la preghiera come «il mezzo necessario e sicuro per ottenere la salvezza e tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per conseguirla» (Introduzione). In questa frase è sintetizzato il modo alfonsiano di intendere la preghiera.

Innanzitutto, dicendo che è un mezzo, ci richiama al fine da raggiungere: Dio ha creato per amore, per poterci donare la vita in pienezza; ma questa meta, questa vita in pienezza, a causa del peccato si è, per così dire, allontanata – lo sappiamo tutti – e solo la grazia di Dio la può rendere accessibile. Per spiegare questa verità basilare e far capire con immediatezza come sia reale per l’uomo il rischio di «perdersi», sant’Alfonso aveva coniato una famosa massima, molto elementare, che dice: «Chi prega si salva, chi non prega si danna!».

A commento di tale frase lapidaria, aggiungeva: «Il salvarsi insomma senza pregare è difficilissimo, anzi impossibile … ma pregando il salvarsi è cosa sicura e facilissima» (II, Conclusione). E ancora egli dice: «Se non preghiamo, per noi non v’è scusa, perché la grazia di pregare è data ad ognuno … se non ci salveremo, tutta la colpa sarà nostra, perché non avremo pregato» (ibid.).

Dicendo quindi che la preghiera è un mezzo necessario, sant’Alfonso voleva far comprendere che in ogni situazione della vita non si può fare a meno di pregare, specie nel momento della prova e nelle difficoltà. Sempre dobbiamo bussare con fiducia alla porta del Signore, sapendo che in tutto Egli si prende cura dei suoi figli, di noi. Per questo, siamo invitati a non temere di ricorrere a Lui e di presentargli con fiducia le nostre richieste, nella certezza di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

Cari amici, questa è la questione centrale: che cosa è davvero necessario nella mia vita? Rispondo con sant’Alfonso: «La salute e tutte le grazie che per quella ci bisognano» (ibid.); naturalmente, egli intende non solo la salute del corpo, ma anzitutto anche quella dell’anima, che Gesù ci dona. Più che di ogni altra cosa abbiamo bisogno della sua presenza liberatrice che rende davvero pienamente umano, e perciò ricolmo di gioia, il nostro esistere.

E solo attraverso la preghiera possiamo accogliere Lui, la sua Grazia, che, illuminandoci in ogni situazione, ci fa discernere il vero bene e, fortificandoci, rende efficace anche la nostra volontà, cioè la rende capace di attuare il bene conosciuto. Spesso riconosciamo il bene, ma non siamo capaci di farlo. Con la preghiera arriviamo a compierlo. Il discepolo del Signore sa di essere sempre esposto alla tentazione e non manca di chiedere aiuto a Dio nella preghiera, per vincerla.

Sant’Alfonso riporta l’esempio di san Filippo Neri – molto interessante –, il quale «dal primo momento in cui si svegliava la mattina, diceva a Dio: “Signore, tenete oggi le mani sopra Filippo, perché se no, Filippo vi tradisce”» (III, 3) Grande realista! Egli chiede a Dio di tenere la sua mano su di lui. Anche noi, consapevoli della nostra debolezza, dobbiamo chiedere l’aiuto di Dio con umiltà, confidando sulla ricchezza della sua misericordia. In un altro passo, dice sant’Alfonso che: «Noi siamo poveri di tutto, ma se domandiamo non siamo più poveri. Se noi siamo poveri, Dio è ricco» (II, 4).

E, sulla scia di sant’Agostino, invita ogni cristiano a non aver timore di procurarsi da Dio, con le preghiere, quella forza che non ha, e che gli è necessaria per fare il bene, nella certezza che il Signore non nega il suo aiuto a chi lo prega con umiltà (cfr III, 3). Cari amici, sant’Alfonso ci ricorda che il rapporto con Dio è essenziale nella nostra vita.

Senza il rapporto con Dio manca la relazione fondamentale e la relazione con Dio si realizza nel parlare con Dio, nella preghiera personale quotidiana e con la partecipazione ai Sacramenti, e così questa relazione può crescere in noi, può crescere in noi la presenza divina che indirizza il nostro cammino, lo illumina e lo rende sicuro e sereno, anche in mezzo a difficoltà e pericoli. Grazie.

[Dopo la catechesi, il Papa ha salutato i pellegrini nelle diverse lingue. Rivolgendosi ai fedeli italiani presenti ha detto:]

Saluto i pellegrini di lingua italiana (a questo putno il Papa si è fermato ad ascoltare il canto del Christus Vincit eseguito dai pellegrini biancavillesi).

Tutti esorto a rendere ovunque una gioiosa testimonianza evangelica.

Qual è il posto del tabernacolo nella chiesa?

Un’approfondita riflessione teologica illustra il ruolo del tabernacolo nelle chiese cattoliche. Con ciò si vuol fare chiarezza su alcuni fraintendimenti invalsi nella prassi post-conciliare che ha portato a rimuovere il SS. Sacramento dagli antichi altari maggiori, per essere relegato in cappelline laterali, più o meno nascoste. Cosa resta nell’altare, dopo il Sacrificio eucaristico? e cosa è un tabernacolo senza la Mensa del sacrificio e del Convivio?

di don Enrico Finotti

L’altare e il tabernacolo – a livello di principio – sono inseparabili. Questa affermazione, a prima vista, potrebbe creare difficoltà, ma, alla luce di una serena argomentazione si comprenderà la verità.
L’altare è il luogo santo sul quale si compie in modo sacramentale il Mistero pasquale della nostra Redenzione. In modo simultaneo nel cuore della Prece Eucaristica si attualizza la Presenza del Signore, il suo atto sacrificale e la sua forma di cibo e bevanda. Presenza Sacrificio e Convito sono tre aspetti indissolubili e sincronici del grande Mistero che con la Consacrazione è donato alla Chiesa.
L’altare è anche il simbolo più qualificato, che esprime con la sua stessa struttura le tre dimensioni del Mistero che su di esso si compie. Infatti: la sua dignità e centralità è il segno di Cristo presente nella Chiesa quale Capo dell’assemblea liturgica; come ara in pietra ed elevata richiama il Sacrificio della Croce, attualizzato nella celebrazione dei santi misteri; la sua mensa ricoperta con la tovaglia ricorda il sacro convivio in cui ci è dato il Pane santo della vita eterna e il calice dell’eterna salvezza. L’altare in tal modo porta impresse su di sé simbolicamente le coordinate fondamentali dell’Eucaristia.

Separare dall’altare il Sacramento, a celebrazione conclusa, crea per sé qualche disagio, sia all’altare come al tabernacolo. Infatti, l’altare improvvisamente si spegne e la sua vita passa al tabernacolo. Se in antico l’altare era l’incontestato luogo sacro al quale tutti si volgevano durante e dopo la celebrazione, essendo il Sacramento custodito nella sagrestia, con il tabernacolo in chiesa, ma separato dall’altare, si crea una bipolarità, che dopo la celebrazione va decisamente a favore del tabernacolo, perché i fedeli, istruiti dal dogma della fede, accorrono lì dov’è la realtà, lasciando in disparte il simbolo, anche se non privo di una certa efficacia spirituale qualora l’altare fosse dedicato. La statua o il ritratto si oscurano quando la persona viva è presente. Ecco perché il papa Paolo VI potrà affermare del tabernacolo e non dell’altare che è «il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese» e Benedetto XVI dirà che «questa presenza fa’ si che nella chiesa ci sia sempre l’eucaristia […] una chiesa senza presenza eucaristica è in qualche modo morta, anche se invita alla preghiera» . Già il beato card. Ildefonso Schuster espresse così il medesimo concetto: «la santissima Eucaristia conservata perennemente nelle chiese dà carattere di perennità al Sacrificio incruento dell’altare…» . Infatti Cristo, «anche dopo l’offerta del sacrificio, allorché viene conservata l’Eucaristia nelle chiese o negli oratori, è veramente l’Emmanuele, cioè ‘Dio con noi’. Giorno e notte resta in mezzo a noi, e in noi abita, pieno di grazia e di verità» (RCCE 2).

Ma anche il tabernacolo subisce danno dalla separazione dall’altare. Infatti esso richiama soprattutto la reale presenza, ma non altrettanto quella virtus sacrificalis, che non abbandona mai l’Agnello immolato e glorioso; e neppure quella forma convivialis, che rimane insita nel Sacramento, il quale, prima o poi, dovrà essere assunto nella comunione. In altri termini, l’altare è il miglior interprete del tabernacolo, perché garantisce l’espressione simbolica di tutti gli aspetti del Mistero. L’autentica formazione eucaristica del cristiano, infatti, implica una triplice attenzione: la percezione adorante della Presenza del Signore, l’unione al suo Sacrificio e il nutrirsi degnamente del suo Corpo e del suo Sangue. L’insufficienza di uno o l’altro di questi aspetti o la loro non adeguata composizione ha portato talvolta a visioni dottrinali, a prassi pastorali o a itinerari spirituali non sempre conformi alla completezza del Mistero nell’equilibrio delle sue parti: «Per ben orientare la pietà verso il santissimo Sacramento dell’Eucaristia e per alimentarla a dovere, è necessario tener presente il mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, sia nella celebrazione della Messa che nel culto delle sacre specie, conservate dopo la Messa per estendere la grazia del sacrificio» (RCCE 4).
Per questo le norme liturgiche stabiliscono che l’esposizione del SS. Sacramento avvenga normalmente sull’altare, adeguatamente ornato, per esprimere la dignità del Sacramento, affinché il senso del Sacrificio e il rimando alla Comunione sacramentale non siano estranei dall’Adorazione. Questa relazione tra l’altare e la SS. Eucaristia è affermata anche dall’invocazione tradizionale: «Benedetto Gesù nel santissimo Sacramento dell’altare» (RCCE 237).
Si comprende allora come il rapporto altare-tabernacolo non sia questione secondaria, ma coinvolga la teologia, la catechesi, la liturgia, la spiritualità e la retta devozione del popolo di Dio. Siccome la storia ci offre soluzioni variabili e la teologia ci richiama all’unità del Mistero, si dovrà essere aperti a normative diversificate, ma sempre attenti a non posporre la presenza personale – vera, reale e sostanziale – del Signore ai suoi simboli.

Nessun dubbio quindi che tutti i fedeli in linea con la pratica tradizionale e costante della Chiesa cattolica, nella loro venerazione verso questo santissimo Sacramento, rendano ad esso quel culto di latrìa che è dovuto al vero Dio. E se Cristo Signore ha istituito questo sacramento come nostro cibo, non per questo ne è sminuito il dovere di adorarlo (RCCE 3)”.

Da LA LITURGIA ROMANA NELLA SUA CONTINUITA’
di don Enrico Finotti (Ediz. Sugarco)

Il Papa nella solennità del Corpus Domini: riprendere l'adorazione eucaristica e riscoprire il sacro

Redazione SME

Ieri a Roma il Santo Padre Benedetto XVI ha celebrato la solennità del Corpus Domini, con la Santa Messa sul piazzale antistante la Basilica di San Giovanni in Laterano e la solenne processione eucaristica che è giunta sino a Santa Maria Maggiore dove il Sommo Pontefice ha impartito la benedizone eucaristica. Una straordinaria folla di fedeli ha seguito per le strade l’omaggio solenne a Gesù sacramentato. Molti anche i fedeli che hanno potuto seguire le celebrazioni attraverso Sat 2000.

“Questa folla – ha commentato Gigi De Palo, assessore ai servizi sociali del Comune di Roma – testimonia la volontà di tanti di stare vicino al Papa: e’ un bel segnale di Roma al suo Vescovo”. 

Il valore del culto eucaristico e la sacralità dell’Eucaristia: a questi due aspetti ha dedicato la sua omelia Benedetto XVI alla messa.
E’ importante, esordisce il Papa nella sua omelia, riprendere in considerazione due aspetti del Mistero eucaristico oggi in parte trascurati: il culto dell’Eucaristia, in particolare l’adorazione del Santissimo Sacramento, e la sua sacralità. Un’interpretazione parziale del Concilio Vaticano II, osserva, ha portato a restringere in pratica l’Eucaristia al solo momento celebrativo in cui il Signore convoca in assemblea il suo popolo. La valorizzazione della celebrazione eucaristica è andata però a scapito dell’adorazione rivolta al Signore Gesù realmente presente nel Sacramento dell’altare e questo con ripercussioni negative sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo. “E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana”.                                                             Il culto del Santissimo Sacramento, continua il Papa, costituisce come l’ambiente spirituale entro cui la comunità può celebrare bene l’Eucaristia: “L’incontro con Gesù nella Messa si attua pienamente quando la comunità riconosce che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi e ci accompagna continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre”.
Benedetto XVI ricorda l’esperienza tante volte vissuta, una, dice, delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, quella dello stare tutti insieme in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento. E per spiegare ciò che si vive in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore, il Papa fa riferimento a qualcosa che appartiene anche ai rapporti interpersonali:
Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale”.
Passando all’aspetto della sacralità dell’Eucaristia, Benedetto XVI osserva che una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ha portato ad un certo fraintendimento circa la novità cristiana che riguarda il culto. Se è vero che il centro del culto non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, tuttavia: “Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio”.
Il sacro ha, per il Papa, una funzione educativa e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. E cita l’esperienza delle celebrazione in corso:“Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita”.
Gesù, dunque, istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, ponendo se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare. Con questa fede, conclude il Papa, celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo.

La visita del Papa a Milano: parole di speranza per la Chiesa e per il mondo

di Massimo Introvigne

«O amici, non questi toni, intoniamone altri di più attraenti e gioiosi». Quando il 1° giugno 2012 Benedetto XVI al Teatro alla Scala di Milano ha ricordato queste parole di Ludwig van Beethoven (1770-1827) nel recitativo dell’Inno alla Gioia, molti vi hanno visto un segno e un simbolo di tutta la visita apostolica del Papa nel capoluogo lombardo. Come, dopo la «terribile dissonanza» che annuncia la parte finale dell’Inno alla Gioia, le parole di Beethoven «in un certo senso, “voltano pagina”», così anche la Chiesa con la gioiosa visita del Pontefice a Milano ha idealmente voltato pagina dopo giornate di difficoltà e di polemiche. Certamente il Papa non poteva né voleva ignorare un contesto di crisi, all’esterno e all’interno della Chiesa. Tuttavia, più che un’analisi della crisi, in questo viaggio ha voluto trasmettere un messaggio di speranza, un richiamo alla bellezza che brilla di fronte al male del mondo e introduce alla verità e al bene.

1. La bellezza dell’arte

Bellezza, anzitutto, dell’opera d’arte, che il Papa musicologo nel dialogo con le famiglie del 2 giugno al Parco di Bresso ha evocato con riferimento alla sua giovinezza, dove in casa al sabato si preparava la Messa domenicale con particolare attenzione alla musica. «Così cominciava la domenica: entravamo già nella liturgia, in atmosfera di gioia. Il giorno dopo andavamo a Messa. Io sono di casa vicino a Salisburgo, quindi abbiamo avuto molta musica – Mozart, Schubert, Haydn – e quando cominciava il Kyrie era come se si aprisse il cielo».

Quanto alla musica di Beethoven – come aveva fatto per altri musicisti in occasione di concerti in suo onore – il Pontefice ne ha parlato alla Scala in termini non generici, e senza nascondere il fatto che l’Inno alla Gioia non è propriamente un inno cristiano. «È una visione ideale di umanità quella che Beethoven disegna con la sua musica: “la gioia attiva nella fratellanza e nell’amore reciproco, sotto lo sguardo paterno di Dio” (Luigi Della Croce). Non è una gioia propriamente cristiana quella che Beethoven canta, è la gioia, però, della fraterna convivenza dei popoli, della vittoria sull’egoismo, ed è il desiderio che il cammino dell’umanità sia segnato dall’amore, quasi un invito che rivolge a tutti al di là di ogni barriera e convinzione».

Ha senso, si è chiesto Benedetto XVI, celebrare la bellezza di un’opera d’arte dedicata alla gioia, in un’Italia in cui tanti piangono le vittime del terremoto? Le parole che Beethoven riprende dall’Inno alla gioia di Friedrich Schiller (1759-1805) «suonano come vuote per noi, anzi, sembrano non vere. Non proviamo affatto le scintille divine dell’Elisio. Non siamo ebbri di fuoco, ma piuttosto paralizzati dal dolore per così tanta e incomprensibile distruzione che è costata vite umane, che ha tolto casa e dimora a tanti. Anche l’ipotesi che sopra il cielo stellato deve abitare un buon padre, ci pare discutibile. Il buon padre è solo sopra il cielo stellato? La sua bontà non arriva giù fino a noi?».
Interrogativi drammatici, che l’uomo si pone ogni volta che si trova di fronte al dolore, alla morte, ai disastri naturali. E allora la retorica di Schiller non basta.

«In quest’ora – ha detto il Papa – le parole di Beethoven, “Amici, non questi toni …”, le vorremmo quasi riferire proprio a quelle di Schiller. Non questi toni. Non abbiamo bisogno di un discorso irreale di un Dio lontano e di una fratellanza non impegnativa. Siamo in cerca del Dio vicino. Cerchiamo una fraternità che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l’altro e così aiuta ad andare avanti». «Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza». È il Dio cristiano.

2. La bellezza della santità

La bellezza di cui ha parlato Benedetto XVI a Milano non è solo quella dell’arte. È la bellezza della vita santa, evocata sia come memoria nel ricordo dei santi milanesi sia come proposta ai ragazzi della Cresima. Già nel primo saluto a Milano in Piazza Duomo il 1° giugno, il Papa ha ricordato i santi che sono stati vescovi e arcivescovi di Milano: sant’Ambrogio, san Carlo Borromeo, il beato Andrea Carlo Ferrari, il beato Alfredo Ildefonso Schuster, il servo di Dio Paolo VI, «buono e sapiente, che, con mano esperta, seppe guidare e portare ad esito felice il Concilio Vaticano II», cui Benedetto XVI ha voluto affiancare un altro vescovo di Milano asceso al soglio di Pietro, Pio XI, «alla cui determinazione si deve la positiva conclusione della Questione Romana e la costituzione dello Stato della Città del Vaticano».

Venuto a Milano per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, tra tanti santi milanesi il Papa ha pure tenuto a «ricordare, proprio pensando alle famiglie, santa Gianna Beretta Molla, sposa e madre, donna impegnata nell’ambito ecclesiale e civile, che fece splendere la bellezza e la gioia della fede, della speranza e della carità». E di tutti questi santi il Pontefice ha voluto sottolineare lo speciale legame con Roma e l’indomita fedeltà al Papa, fin da sant’Ambrogio. «Come è noto, sant’Ambrogio proveniva da una famiglia romana e ha mantenuto sempre vivo il suo legame con la Città Eterna e con la Chiesa di Roma, manifestando ed elogiando il primato del Vescovo che la presiede. In Pietro – egli afferma – “c’è il fondamento della Chiesa e il magistero della disciplina” (De virginitate, 16, 105); e ancora la nota dichiarazione: “Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa” (Explanatio Psalmi 40, 30, 5). La saggezza pastorale e il magistero di Ambrogio sull’ortodossia della fede e sulla vita cristiana lasceranno un’impronta indelebile nella Chiesa universale e, in particolare, segneranno la Chiesa di Milano, che non ha mai cessato di coltivarne la memoria e di conservarne lo spirito».

Ai ragazzi della Cresima, il Papa – come aveva già fatto in Gran Bretagna il 17 settembre 2010 – ha chiesto di essere santi: «Siate santi! Ma è possibile essere santi alla vostra età? Vi rispondo: certamente! Lo dice anche sant’Ambrogio, grande Santo della vostra Città, in una sua opera, dove scrive: “Ogni età è matura per Cristo” (De virginitate, 40). E soprattutto lo dimostra la testimonianza di tanti Santi vostri coetanei, come Domenico Savio, o Maria Goretti. La santità è la via normale del cristiano: non è riservata a pochi eletti, ma è aperta a tutti». Si può anche ricordare a questo proposito l’impegno personale di Benedetto XVI per la ripresa della causa di beatificazione di Antonietta Meo, «Nennolina» (1930-1937), proclamata venerabile nel 2007 superando obiezioni su una presunta impossibilità di diventare santi a sette anni.

Ai cresimandi il Papa ha indicato pure la via verso la bellezza della santità: i doni dello Spirito Santo, «realtà stupende» e oggi tanto spesso purtroppo dimenticate. Vale dunque la pena di ricordarli. Il primo è la sapienza, «che vi fa scoprire quanto è buono e grande il Signore e, come dice la parola, rende la vostra vita piena di sapore, perché siate, come diceva Gesù, “sale della terra”». Il secondo è l’intelletto, «così che possiate comprendere in profondità la Parola di Dio e la verità della fede». Terzo: il consiglio, «che vi guiderà alla scoperta del progetto di Dio sulla vostra vita, vita di ognuno di voi». Quarto dono: la fortezza, «per vincere le tentazioni del male e fare sempre il bene, anche quando costa sacrificio». Quinto: il dono della scienza, «non scienza nel senso tecnico, come è insegnata all’Università, ma scienza nel senso più profondo che insegna a trovare nel creato i segni le impronte di Dio, a capire come Dio parla in ogni tempo e parla a me, e ad animare con il Vangelo il lavoro di ogni giorno; capire che c’è una profondità e capire questa profondità e così dare sapore al lavoro, anche quello difficile». Sesto dono: la pietà, «che tiene viva nel cuore la fiamma dell’amore per il nostro Padre che è nei cieli, in modo da pregarLo ogni giorno con fiducia e tenerezza di figli amati; di non dimenticare la realtà fondamentale del mondo e della mia vita: che c’è Dio e che Dio mi conosce e aspetta la mia risposta al suo progetto». E il settimo dono, forse il più difficile da capire per un giovane oggi, è il timore di Dio, da non confondersi con la paura. Il «timore di Dio non indica paura, ma sentire per Lui un profondo rispetto, il rispetto della volontà di Dio che è il vero disegno della mia vita ed è la strada attraverso la quale la vita personale e comunitaria può essere buona; e oggi, con tutte le crisi che vi sono nel mondo, vediamo come sia importante che ognuno rispetti questa volontà di Dio impressa nei nostri cuori e secondo la quale dobbiamo vivere; e così questo timore di Dio è desiderio di fare il bene, di fare la verità, di fare la volontà di Dio».

3. La bellezza nel sacerdozio e nella vita consacrata

 C’è una bellezza particolare anche nella vita sacerdotale. Celebrando l’ora media in Duomo a Milano con i sacerdoti, i seminaristi e le persone consacrate, Benedetto XVI ricordava come Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, nel 1958 paragonava la vita sacerdotale a un poema: «Comincia la vita sacerdotale: un poema, un dramma, un mistero nuovo … fonte di perpetua meditazione …sempre oggetto di scoperta e di meraviglia; [il Sacerdozio] è sempre novità e bellezza per chi vi dedica amoroso pensiero … è riconoscimento dell’opera di Dio in noi» (Omelia per l’Ordinazione di 46 Sacerdoti, 21 giugno 1958). E il Papa, attento alla musica, ha paragonato la vita sacerdotale e consacrata a una «sinfonia», in cui tre elementi – unione personale con Dio, servizio alla Chiesa e servizio all’intera umanità – non si contrappongono ma s’incontrano armoniosamente.

Di questa bellezza della vita consacrata e sacerdotale sono parte integrante la castità e il celibato. Certo, «l’amore per Gesù vale per tutti i cristiani, ma acquista un significato singolare per il sacerdote celibe e per chi ha risposto alla vocazione alla vita consacrata: solo e sempre in Cristo si trova la sorgente e il modello per ripetere quotidianamente il “sì” alla volontà di Dio». Il Papa richiama le radici della Chiesa ambrosiana, il magistero di sant’Ambrogio. «“Con quali legami Cristo è trattenuto?” – si chiedeva sant’Ambrogio, che con intensità sorprendente predicò e coltivò la verginità nella Chiesa, promuovendo anche la dignità della donna. Al quesito citato rispondeva: “Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13, 77)». E ancora il Pontefice cita un sermone di sant’Ambrogio alle vergini: «Cristo è tutto per noi: se desideri risanare le tue ferite, egli è medico; se sei angustiato dall’arsura delle febbre, egli è fonte; se ti trovi oppresso dalla colpa, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è potenza; se hai paura della morte, egli è vita; se desideri il paradiso, egli è via; se rifuggi le tenebre, egli è luce; se sei in cerca di cibo, egli è nutrimento» (De virginitate, 16, 99).

4. La bellezza del dono di sé nella famiglia

C’è una bellezza del sacerdozio e della vita consacrata e c’è una bellezza della famiglia. Nell’omelia della Messa del giugno al Parco di Bresso per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie Benedetto XVI è partito dalla bellezza della Chiesa, «la famiglia di Dio», «sacrarium Trinitatis» come la definisce sant’Ambrogio con un’espressione che il Papa tiene a ricordare nel giorno della festa liturgica della Santissima Trinità, «popolo che – come insegna il Concilio Vaticano II – deriva la sua unità dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium, 4). La Chiesa quando comprende la sua natura diventa «capace di riflettere la bellezza della Trinità».

Ma chiamata a riflettere questa bellezza, «chiamata ad essere immagine del Dio Unico in Tre Persone non è solo la Chiesa, ma anche la famiglia, fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna». L’amore è infatti la bellezza ultima dell’uomo. «L’amore è ciò che fa della persona umana l’autentica immagine della Trinità, immagine di Dio». Questa immagine trinitaria si riflette anche nei tre significati dell’amore umano, che è tre volte fecondo: «fecondo – ha detto il Pontefice agli sposi – innanzitutto per voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene l’uno dell’altro, sperimentando la gioia del ricevere e del dare». Fecondo, in secondo luogo, «nella procreazione, generosa e responsabile, dei figli, nella cura premurosa per essi e nell’educazione attenta e sapiente». E in terzo luogo «fecondo infine per la società, perché il vissuto familiare è la prima e insostituibile scuola delle virtù sociali, come il rispetto delle persone, la gratuità, la fiducia, la responsabilità, la solidarietà, la cooperazione». Così la famiglia riflette anch’essa, come la Chiesa, la bellezza della Trinità.

Questa bellezza dell’amore oggi spesso è compresa in modo sentimentale o superficiale. Nel dialogo del 2 giugno, il Papa ha ricordato che in molte società tradizionali e in molte zone dell’Europa, fino ai primi decenni del XX secolo – «mi ricordo, ha detto, che in un piccolo paese, nel quale sono andato a scuola, era in gran parte ancora così» –, il matrimonio era combinato tra le famiglie o i clan. «Ma poi, dall’Ottocento, segue l’emancipazione dell’individuo, la libertà della persona, e il matrimonio non è più basato sulla volontà di altri, ma sulla propria scelta; precede l’innamoramento, diventa poi fidanzamento e quindi matrimonio». Questo sviluppo è accolto dalle nuove generazioni con grande entusiasmo. «In quel tempo – ricorda il Pontefice – tutti eravamo convinti che questo fosse l’unico modello giusto e che l’amore di per sé garantisse il “sempre”, perché l’amore è assoluto, vuole tutto e quindi anche la totalità del tempo: è “per sempre”». La realtà, però, ha smentito questi entusiasmi: «si vede che l’innamoramento è bello, ma forse non sempre perpetuo, così come è il sentimento: non rimane per sempre. Quindi, si vede che il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio esige diverse decisioni, esperienze interiori. Come ho detto, è bello questo sentimento dell’amore, ma deve essere purificato, deve andare in un cammino di discernimento, cioè devono entrare anche la ragione e la volontà; devono unirsi ragione, sentimento e volontà».

È un durus sermo, quello del Papa, quando ricorda che l’essere sinceramente innamorati di per sé non fa il matrimonio. «Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: “Sei innamorato?”, ma “Vuoi?”, “Sei deciso?”. Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: “Sì, questa è la mia vita”». «Io penso spesso – ha confidato il Pontefice – alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente “secondo vino” è più bello, migliore del primo vino».

Testimoniare questa bellezza oggi non è facile. Come già nella visita del 3 maggio 2012 al Policlinico Gemelli e nell’omelia di Pentecoste, il Papa nella Messa del 3 giugno è tornato sul tema – centrale nell’enciclica Caritas in veritate – della tecnocrazia, del «mondo dominato dalla tecnica», che crea un mondo dove la vocazione al matrimonio cristiano «non è facile da vivere». Ultimamente, di fronte al mondo tentato dalla tecnocrazia la famiglia testimonia la verità che «l’amore è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo». «Nel libro della Genesi – ha ricordato il Pontefice –, Dio affida alla coppia umana la sua creazione, perché la custodisca, la coltivi, la indirizzi secondo il suo progetto (cfr 1,27-28; 2,15). In questa indicazione della Sacra Scrittura, possiamo leggere il compito dell’uomo e della donna di collaborare con Dio per trasformare il mondo, attraverso il lavoro, la scienza e la tecnica. L’uomo e la donna sono immagine di Dio anche in questa opera preziosa, che devono compiere con lo stesso amore del Creatore».

La tecnocrazia, appunto, intende la trasformazione del mondo come qualche cosa che può essere valutato solo con il criterio dell’utile. Così, «nelle moderne teorie economiche, prevale spesso una concezione utilitaristica del lavoro, della produzione e del mercato. Il progetto di Dio e la stessa esperienza mostrano, però, che non è la logica unilaterale dell’utile proprio e del massimo profitto quella che può concorrere ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare una società giusta, perché porta con sé concorrenza esasperata, forti disuguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai consumi, disagio nelle famiglie. Anzi, la mentalità utilitaristica tende ad estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto sociale».

Si moltiplicano così i fallimenti, le separazioni e i divorzi. Nel dialogo del 2 giugno il Papa ha confidato che «il problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio». Dopo avere ribadito quanto aveva affermato nelle sue Allocuzioni alla Rota Romana del 2007 e del 2011, che «molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione», compreso un esame serio da parte dei parroci delle reali intenzioni delle coppie che si presentano per sposarsi, il Pontefice ribadisce alle coppie in situazione irregolare «che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono “fuori”». Naturalmente, la Chiesa accetta e ama le persone, non la loro irregolarità: devono essere accolte in chiesa ma «non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia». Ma, se pure non possono essere assolte in confessione, «tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati». E, se pure non possono ricevere l’Eucarestia, «anche senza la ricezione “corporale” del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non èsolo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa».

La mentalità utilitarista e tecnocratica, che appunto non è tra le ultime cause del fallimento di tante famiglie, tende anche a ignorare, o a vedere con sospetto – ha detto il Papa nell’omelia del 3 giugno –, che «l’uomo, in quanto immagine di Dio, è chiamato anche al riposo e alla festa». Mette in crisi così la nozione della domenica come giorno del Signore e anche «giorno dell’uomo e dei suoi valori: convivialità, amicizia, solidarietà, cultura, contatto con la natura, gioco, sport». La Chiesa non può accettare questa crisi: «pur nei ritmi serrati della nostra epoca – invoca il Papa –, non perdete il senso del giorno del Signore! È come l’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia dell’incontro e dissetare la nostra sete di Dio».

Famiglia, lavoro e festa sono per Benedetto XVI «tre doni di Dio, tre dimensioni della nostra esistenza che devono trovare un armonico equilibrio. Armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la paternità e la maternità, il lavoro e la festa, è importante per costruire società dal volto umano». Per affermare la bellezza della famiglia occorre privilegiare «sempre la logica dell’essere rispetto a quella dell’avere: la prima costruisce, la seconda finisce per distruggere».

L'uomo di oggi è capace di vero culto a Dio?

L’Arcivescovo di Philadelphia offre a tutti i cattolici una splendida riflessione sul significato di liturgia e missione nel terzo millennio, in un contesto culturale che non facilita il rapporto autentico dell’uomo con Dio. La soluzione sta nel ritrovare il vero senso dell’atto di culto, non nnell’adeguarlo alla mentalità del mondo, sulla scorta delle autentiche intenzioni del Concilio Vaticano II.

di Mons. Charles Chaput*

Nel 1964 Romano Guardini affermava che la ‘Sacrosanctum Concilium’ avrebbe inaugurato una nuova fase nel movimento liturgico, ma scriveva tra l’altro:L’atto liturgico, e con esso tutto ciò che va sotto il nome di ‘liturgia’, non è così fortemente legato al contesto storico – antico o medievale o barocco -, per cui sarebbe più onesto rinunciarvi completamente? Non sarebbe meglio ammettere che l’uomo di questa era industriale e scientifica, con la sua nuova struttura sociologica, non è più capace di atto liturgico?“. L’osservazione di Guardini fece grande scalpore, ma sembra che né teologi né liturgisti abbiano mai preso sul serio i suoi timori. Lasciate che vi dica che io invece quei timori li raccolgo. Penso che egli abbia messo il dito su una delle questioni cardine della missione nel suo tempo, e anche nel nostro.
Ciò che Guardini intendeva per atto liturgico, era la trasformazione della pietà e della preghiera personale in un genuino culto comunitario, la leitourgia, l’ufficio pubblico che la Chiesa offre a Dio. Riconosceva che la preghiera comunitaria della Chiesa era cosa ben diversa dalla preghiera privata di individui credenti. L’atto liturgico comporta un nuovo genere di coscienza, una “disponibilità verso Dio”, una consapevolezza intima dell’unità di tutta la persona, corpo e anima, con il corpo spirituale della Chiesa presente in cielo e in terra. Comporta pure il riconoscimento che i sacri segni e le azioni della Messa – stare in piedi, in ginocchio, cantare e così via – sono in sé “preghiera”. Guardini riteneva che lo spirito del mondo moderno stesse minando le convinzioni che rendono possibile questa coscienza liturgica. Egli spiegava che la nostra fede e il nostro culto non avvengono nel vuoto. Noi siamo sempre in qualche misura prodotti della nostra cultura. Le nostre strutture concettuali, le nostre percezioni della realtà, sono formate dalla cultura nella quale viviamo, che ci piaccia o no.

Oggi quasi nulla di ciò che noi cattolici crediamo è sostenuto dalla cultura odierna. Perfino il significato di “umano” e di “persona” è soggetto a dibattito, come pure altri concetti dottrinali della visione cattolica sono aggressivamente ripudiati o ignorati. Nella nostra vita di ogni giorno siamo circondati da monumenti inneggianti al nostro potere sulla natura e sul bisogno. I trofei della nostra autonomia ed autosufficienza sono ovunque – palazzi, macchine, medicine, invenzioni. Tutto sembra magnificare la nostra capacità di provvedere ad ogni necessità con il know-how e la tecnologia. Di nuovo la questione diventa: quale influsso ha tutto ciò con la premessa centrale per un corretto culto – che cioè siamo creature dipendenti dal nostro Creatore, e che dobbiamo rendere grazie a Dio per tutti i suoi doni, a cominciare dal dono della vita?

Possiamo porre le stesse questioni a proposito della nostra missione di evangelizzazione. Noi predichiamo la buona notizia che questo mondo ha un Salvatore in grado di liberarci dalla schiavitù del peccato e della morte, ma che impatto ha questa buona notizia in un mondo in cui la gente non crede nel peccato o che ritiene di non avere niente da cui essere salvata? Quale senso può avere la promessa della vittoria sulla morte per gente che non crede che esista nulla al di là del mondo visibile?

Allora ha ragione Guardini nell’affermare che l’uomo di oggi sembra incapace di vero culto? Penso di sì. Ma la domanda più importante per noi è questa: se ha ragione, noi che cosa faremo?

Padre Robert Barron affronta il tema in questo modo:Il progetto non è formare la liturgia secondo le congetture dell’epoca, ma far sì che la liturgia interpelli e formi le congetture di ogni tempo. L’uomo di oggi è incapace di atti liturgici? Probabilmente. Ma non vi è nessuna ragione per disperare. Il nostro fine non è adeguare la liturgia al mondo, ma lasciare che la liturgia sia se stessa – un’icona trasformativa dell’ordo di Dio“.

Gli sforzi per inventare una liturgia più “rilevante” e “intelligibile” mediante una sorta di incessante culto della novità, ha generato solo confusione e una separazione ancora più profonda fra i credenti e il vero spirito della liturgia.

Il prossimo grande compito del rinnovamento liturgico è costruire un’autentica cultura eucaristica, infondere una nuova sensibilità sacramentale e liturgica che renda i cattolici capaci di affrontare gli idoli e gli emblemi della nostra cultura con la fiducia dei credenti che traggono vita dai sacri misteri nei quali si entra in comunione con il Dio vivente. Spero ora di dare il mio piccolo contributo per questo grande sforzo di rinnovamento presentando quattro punti:

1) Dobbiamo recuperare la connessione intrinseca e inseparabile fra liturgia ed evangelizzazione. La liturgia è fonte e scopo della missione ecclesiale. Lo insegnava Cristo, era la prassi della Chiesa primitiva ed è stato riaffermato dal Concilio Vaticano II. Noi evangelizziamo per far entrare in comunione con il Dio vivente nella liturgia eucaristica, e a sua volta, l’esperienza di comunione con Dio ci spinge ad evangelizzare.

2) La liturgia è partecipazione alla liturgia celeste nella quale adoriamo in spirito e verità con la Chiesa universale e la comunione dei santi (Sacrosanctum Concilium, 8). Questa è forse la dimensione liturgica più trascurata oggi. Se le nostre liturgie le troviamo banali, ristrette, troppo incentrate sulle comunità di appartenenza con le proprie particolari esigenze, se mancano di un senso potente del sacro e del trascendente, è perché abbiamo perso il senso della partecipazione del nostro culto con la liturgia celeste.

Nella Divina Liturgia, il Regno viene sulla terra così come in cielo. Cielo e terra sono pieni della gloria di Dio. Questa è la nostra fede, ma non so quanti credenti di fatto la vivano. Il Libro dell’Apocalisse ci mostra la liturgia celeste. Ricordate come inizia, San Giovanni “fu preso dallo Spirito nel giorno del Signore”. In altre parole, stava celebrando l’Eucaristia di domenica quando gli fu data una visione del culto del cielo e del mondo a venire (Ap. 1, 9-10). Il libro è pieno di immagini liturgiche e sacramentali. A un certo punto, Giovanni vede una moltitudine innumerevole da ogni tribù, lingua, popolo e nazione che adorava l’Agnello eucaristico. Il vertice del libro è l’avvento di “un nuovo cielo e una nuova terra” con l’annuncio “ecco la dimora di Dio con gli uomini”.

Ogni volta che celebriamo la liturgia sulla terra, noi pregustiamo in essa la consumazione della storia. Questa verità dovrebbe trasformare il nostro modo di celebrare e muoverci alla gratitudine nel vedere che il nostro Dio ci ha concesso il privilegio di unirci agli angeli e ai santi nell’adorazione dinanzi a Dio; dovrebbe renderci desiderosi di celebrare liturgie che siano venerabili e belle, che rivolgano il nostro cuore e la nostra mente alle cose di lassù.

3) Occorre fare ogni sforzo per recuperare e vivere la stessa vibrante spiritualità liturgica ed evangelica dei primi cristiani. Alcune delle peggiori idee liturgiche post-conciliari erano mosse da un vago romanticismo sul modo in cui i primi cristiani credevano e celebravano, persuasi ad esempio che la Chiesa agli inizi non avesse il sacerdozio sacramentale e che l’Eucaristia avesse un rituale limitato, che fosse essenzialmente un pasto tra amici. Il problema con queste ricostruzioni nostalgiche – primitiviste – si può sintetizzare in un unico concetto: nessuno rischia la tortura e la vita per un pasto con gli amici, poiché proprio tortura e morte venivano sentenziate per quanti venivano sorpresi a celebrare l’Eucaristia al tempo della Chiesa delle origini. Ci sono racconti a iosa su questi fatti. Tra questi, mi commuove in particolare una testimonianza che ci giunge dall’anno 304, durante la grande persecuzione di Diocleziano dai Martiri di Abitene, un villaggio nei pressi di Cartagine. Un giovane di nome Felix, che aveva il ministero di lettore, interrogato sui motivi per cui aveva disobbedito al decreto dell’imperatore, rispondeva: “come se uno potesse essere cristiano senza la Messa o che si possa celebrare la Messa senza un cristiano!… Il cristiano esiste con la Messa e la Messa nei cristiani! L’uno non può esistere senza l’altra… Abbiamo celebrato l’assemblea gloriosa, e ci siamo radunati per leggere nella Messa le Scritture del Signore”. Notiamo in questa confessione gli stessi temi di cui stiamo parlando. Per quei discepoli la Messa non è una semplice mensa. E’ “assemblea gloriosa”, una liturgia celeste che designa la loro identità di cristiani come anche l’identità della Chiesa, tanto è vero che uno dei compagni martiri di Felix confessava: “Non possiamo vivere senza la Messa”.

Uno degli impatti più gravi della cultura relativistica sull’Eucaristia è il fatto che per noi la domenica non è più il primo giorno della settimana ma l’ultimo giorno del “weekend”. Gesù Cristo risuscitò dai morti “il primo giorno della settimana” (Mc. 16, 2). Per questo, i primi cristiani veneravano la domenica come la “Pasqua settimanale”, il giorno del Signore. Lo stesso vale per noi. La Messa deve essere la nostra offerta spirituale all’inizio di ogni settimana, non un qualcosa che “infiliamo” nel nostro tempo libero prima di tornare al lavoro il lunedì. Anche questo sottile cambiamento di prospettiva potrebbe avere un forte impatto sul modo in cui celebriamo e come viviamo la nostra fede nel mondo.

4) La liturgia è una scuola di amore oblativo. La legge della nostra preghiera sia anche la legge della nostra vita. Lex orandi, lex vivendi. Siamo chiamati a diventare il sacrificio che celebriamo. E’ impressionante notare quanti racconti dei primi cristiani martiri, soprattutto racconti di vescovi e sacerdoti, siano narrati in “chiave eucaristica”. E’ un classico il martirio dell’anziano vescovo Policarpo arrostito vivo. I testimoni diranno di aver sentito il profumo non di carne bruciata, ma di pane spezzato. L’altro esempio classico è Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia. In prigione aspettando la sua esecuzione che consisteva nell’essere sbranato dai cani, scrisse: “Sono farina di Dio dato in pasto alle bestie feroci per essere trovato pane puro di Cristo”.

Non soltanto i martiri sono offerta eucaristica, ma anche voi ed io ed ogni credente battezzato. Di continuo leggiamo nel Nuovo Testamento che tutti siamo chiamati ad offrirci a Dio come sacrificio vivente di lode, santo e gradito a Dio (Rom. 12, 1). Questa è la prima pietra della dottrina cattolica sul sacerdozio comune di tutti i battezzati. I primi cristiani si sentivano gli eredi della vocazione data a Israele, “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa”. Tutti i battezzati, con il sacerdozio della propria vita, sono chiamati a offrire non il sacrificio cruento di animali, ma il sacrificio del cuore, simbolo della vita, in imitazione di Gesù Cristo.Il nostro sacrificio di lode è innanzitutto nell’Eucaristia. Questo intende il Concilio quando esorta alla “partecipazione attiva” del laicato nella liturgia (SC, 14). Un’espressione che purtroppo è stata presa come licenza per ogni sorta di attività esteriore, agitazione ed efficientismo nel culto. Non era affatto questa la volontà del Vaticano II. La “partecipazione attiva” si riferisce al movimento interiore del nostro spirito, la nostra intima partecipazione all’azione di Cristo nell’offerta del suo corpo e sangue. Ciò esige che si abbiano spazi e “pause” durante la celebrazione per raccogliere le nostre emozioni e pensieri, e fare un atto consapevole di offerta di sé. Dobbiamo “innalzare i nostri cuori” e metterli con contrizione ed umiltà sull’altare insieme al pane e al vino.

Ma la nostra opera non finisce con la Messa. Lungo i nostri giorni, tutto – lavoro, sofferenze, preghiere, incarichi – tutto ciò che facciamo e sperimentiamo deve essere offerto a Dio come sacrificio spirituale. Tutto sia offerto a lode e gloria del nome di Dio e per la salvezza dei nostri fratelli e sorelle. Questo è un altro grande insegnamento del Concilio che dobbiamo ancora integrare nella nostra ordinaria spiritualità. Tutto quello che facciamo, nella liturgia e nella nostra vita nel mondo, è al servizio della consacrazione del mondo a Dio.

Così, cari amici, abbiamo chiuso il cerchio. Ecco la risposta alla sfida di Guardini. Voi siete la risposta alla sua sfida. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando fate della vostra vita una liturgia, quando la vivete liturgicamente, un’offerta a Dio nel ringraziamento e nella lode per i suoi doni e per la salvezza. Voi siete il futuro del rinnovamento liturgico. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando considerate la vostra vita e il vostro lavoro nella luce del progetto di Dio sul mondo, alla luce della sua volontà che tutti gli uomini e le donne si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tim. 2, 4). Il mistero che celebriamo con gli angeli e i santi deve radicarsi profondamente nella nostra vita e personalità, deve portare frutto. Ciascuno di noi deve dare il proprio unico contributo al misericordioso disegno di Dio – che tutta la creazione diventi adorazione e sacrificio a lode della sua gloria. E’ quanto mai conveniente che concludiamo e ce ne andiamo con le parole di uno dei nuovi inviti di congedo del nuovo Messale Romano: “Glorificate il Signore nella vostra vita. Andate in pace”.

*stralci di un articolo pubblicato su Messainlatino.it

Il Papa al Regina Coeli: lasciamoci invadere dalla misericordia di Dio

Cari fratelli e sorelle!

Ogni anno, celebrando la Pasqua, noi riviviamo l’esperienza dei primi discepoli di Gesù, l’esperienza dell’incontro con Lui risorto: racconta il Vangelo di Giovanni che essi lo videro apparire in mezzo a loro, nel cenacolo, la sera del giorno stesso della risurrezione, «il primo della settimana», e poi «otto giorni dopo» (cfr Gv 20,19.26). Quel giorno, chiamato poi «domenica», «giorno del Signore», è il giorno dell’assemblea, della comunità cristiana che si riunisce per il suo culto proprio, cioè l’Eucaristia, culto nuovo e distinto fin dall’inizio da quello giudaico del sabato. In effetti, la celebrazione del Giorno del Signore è una prova molto forte della Risurrezione di Cristo, perché solo un avvenimento straordinario e sconvolgente poteva indurre i primi cristiani a iniziare un culto diverso rispetto al sabato ebraico. Allora come oggi, il culto cristiano non è solo una commemorazione di eventi passati, e nemmeno una particolare esperienza mistica, interiore, ma essenzialmente un incontro con il Signore risorto, che vive nella dimensione di Dio, al di là del tempo e dello spazio, e tuttavia si rende realmente presente in mezzo alla comunità, ci parla nelle Sacre Scritture e spezza per noi il Pane di vita eterna. Attraverso questi segni noi viviamo ciò che sperimentarono i discepoli, cioè il fatto di vedere Gesù e nello stesso tempo di non riconoscerlo; di toccare il suo corpo, un corpo vero, eppure libero dai legami terreni. E’ molto importante quello che riferisce il Vangelo, e cioè che Gesù, nelle due apparizioni agli Apostoli riuniti nel cenacolo, ripeté più volte il saluto «Pace a voi!» (Gv 20,19.21.26). Il saluto tradizionale, con cui ci si augura lo shalom, la pace, diventa qui una cosa nuova: diventa il dono di quella pace che solo Gesù può dare, perché è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La «pace» che Gesù offre ai suoi amici è il frutto dell’amore di Dio che lo ha portato a morire sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e umile, «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Ecco perché il beato Giovanni Paolo II ha voluto intitolare questa Domenica dopo la Pasqua alla Divina Misericordia, con un’icona ben precisa: quella del costato trafitto di Cristo, da cui escono sangue ed acqua, secondo la testimonianza oculare dell’apostolo Giovanni (cfr Gv 19,34-37). Ma ormai Gesù è risorto, e da Lui vivo scaturiscono i Sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia: chi si accosta ad essi con fede riceve il dono della vita eterna. Cari fratelli e sorelle, accogliamo il dono della pace che ci offre Gesù risorto, lasciamoci riempire il cuore dalla sua misericordia! In questo modo, con la forza dello Spirito Santo, lo Spirito che ha risuscitato Cristo dai morti, anche noi possiamo portare agli altri questi doni pasquali. Ce lo ottenga Maria Santissima, Madre di Misericordia.