LA CASA DI DIO E DELLA CHIESA

A Biancavilla, inaugurata e “dedicata” oggi, con solenne liturgia la nuova chiesa parrocchiale del SS. Salvatore.


Ad officiare il singolare rito, l’Arcivescovo di Catania, Mons. Salvatore Gristina.
Nel “vestibolo”, collocata una riproduzione dell’Icona della Madonna dell’Elemosina-Madre di Misericordia, protettrice di Biancavilla, donata per l’occasione alla Parrocchia dall’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” e accolta dal Parroco, don Salvatore Verzì, con immensa gioia.

La Parrocchia del SS. Salvatore, eretta nella zona periferica di “Spartiviale” nel febbraio del 1970 per la lungimiranza e la tenacia del compianto sacerdote Placido Brancato, fu presto affidata alle amorevoli cure pastorali di don Salvatore Castellano.

Alla sua morte, gli successe il Sac. Alfio Sarvà, che avvió le prime pratiche per l’individuazione del terreno per la costruzione della chiesa.

Nell’ultimo ventennio vi è parroco don Verzì che, finalmente, grazie alla sua caparbietà, assieme alla sua vivace Comunità ecclesiale, può gioire del dono della Chiesa-edificio, iniziato materialmente il 28 aprile del 2018 con la posa della prima pietra.


Oggi, appunto, il rito di Dedicazione, per innalzare alla bontà di Dio tre volte santo la preghiera della Chiesa “pellegrina sulla terra”, affinché, l’edificio dedicato al suo salvifico nome, sia anche per l’intercessione della beata vergine Maria, casa di salvezza e di grazia, il Popolo cristiano si raduni con gioia, adori Dio in spirito e verità e si edifichi nel suo amore nella carità.

Al parroco e ai fedeli tutti, gli auguri da parte dell’Associazione mariana Biancavillese.

PADRE NOVELLO: L’IRONIA COME SGUARDO SAPIENTE SUL MONDO

Sapeva ridere di tutto e di se stesso, perché aveva consapevolezza della precarietà umana. Un animo sempre curioso di indagare i contenuti della fede, in continua di ricerca di risposte alle grandi domande della vita.
Ha amato gli animali, ha vissuto in compagnia dei suoi cani, forse incompreso dagli uomini.
Lo ricordiamo con le sue stesse parole in questa intervista per il suo 50° anniversario di sacerdozio rilasciata per la rivista “SME-Madre di Misericordia”.

Padre Novello, ci racconta come nasce la sua vocazione?

È nata dopo essere entrato in Seminario!  Da fanciullo il canonico Salvatore Patti mi portò al Piccolo Seminario di Biancavilla, nonostante le resistenze di mio padre. Dopo solo qualche tempo capii che il Signore mi voleva prete. Fui accolto al Seminario maggiore di Catania dal Rettore Mons. Carlo Vota e dal Prefetto degli studi mons. Antonino Distefano, nostro concittadino. Era molto rigoroso, e non sempre il rapporto con lui fu facile. L’8 dicembre 1954 ho indossato la veste talare. Era l’anno del centenario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione. Un giorno in Seminario venne in visita un Missionario Saveriano, tale P. Bergamin, che divenne poi Vescovo in Indonesia. Mi colpì il suo modo schietto di parlare e di predicare. Nacque una bella intesa e lui stesso mi invitò a fare il missionario. Così, nel ‘59 emisi la professione temporanea dei voti e mi traferii a Piacenza per un tempo di preparazione agli studi. Nel ‘60 andai a Parma per studiare la Teologia. Qui il 28 ottobre 1962 ho ricevuto l’ordinazione presbiterale per le mani del Card. Richard James Cushing, Arcivescovo di Boston (USA), che si trovava in Italia per i lavori del Concilio Vaticano II.




 

Quando ha deciso di partire in missione?

Sapevo che, come missionario, dovevo andare ad annunciare il Vangelo in terre lontane. Tuttavia, ero titubante nel partire, soprattutto per la lingua. Andai da P. Pio a San Giovanni Rotondo. Il Frate con il suo tono austero e risoluto mi disse: “la imparerai la lingua!”. E io aggiunsi: “a me piacerebbe ma sono l’unico figlio maschio della famiglia..”. e lui: “Figlio mio, tutto tu vuoi?! Vai e vedrai che a suo tempo ritornerai!”. Così nel ’64 partì per il Brasile. Sono stato nella città di San Paolo, una delle città più grandi del mondo, e nel Paranà, uno degli stati del Brasile. In due mesi imparai la lingua che presto mi divenne confidenziale. Fui mandato ad evangelizzare il villaggio di Cafeara, rinomato per la produzione di caffè. La gente era profondamente credente, ma conosceva poco la Parola di Dio. Noi Missionari ci prodigammo per far conoscere il Vangelo e la dottrina cristiana in tutti i modi possibili. Proprio per raggiungere chi non aveva fede, fui mandato a lavorare come semplice operaio (nascondendo il mio sacerdozio) in una fabbrica metallurgica, per cercare di rendere la mia testimonianza cristiana tra i colleghi. Fui poi insegnante di religione nelle scuole e assistente giovanile degli scout nonché Vice-rettore del Seminario Arcivescovile di S. Paolo. Dopo questo periodo, d’intesa con il Card. Angelo Rossi, prefetto di propaganda fide, decisi il mio rientro nella diocesi di Catania.




Quale ricordo conserva di quegli anni e di quella gente?

Una fede genuina, semplice ma robusta. Mi sono reso conto che presso quelle popolazioni è più facile annunciare il vangelo di quanto non sia qui in Europa. Qui abbiamo molti pregiudizi che ci ostacolano a fidarci del Signore.

Al suo rientro in Diocesi, dopo 5 anni, ha lavorato per 10 anni con il prevosto Giosuè Calaciura, negli anni del dopo Concilio. Fu davvero un nuovo inizio?

Qualcuno aveva inteso il Concilio come una rottura con la secolare Tradizione della Chiesa Cattolica. Uno dei segni più evidenti di questo atteggiamento fu l’abbandono della veste talare da parte dei preti. Ricordo un episodio. Un giorno viaggiavamo in treno con P. Calaciura per la Francia. Dopo aver lasciato Catania ci siamo tolti la veste per una maggiore comodità e per “livellarci” a tanto clero che iniziava a svestire l’abito, , tanto credevamo che non ci avrebbe notato nessuno… Alla stazione di Acireale P. Calaciura si affacciò dal finestrino per una boccata d’aria. Quando sentì un urlo: “P. Calaciura….?!” Era Puddu “Cimicia” il sacrestano della Matrice, che non so come fosse capitato ad Acireale! Ci vergognammo molto per essere stati visti senza la veste. Ora è diventato quasi normale non indossare più la talare. Bisogna dire, comunque, che il Concilio è stata una gran bella cosa, una ventata di freschezza per la Chiesa, purché inteso in modo corretto, in sintonia con la grande Tradizione della Chiesa, come insegna Papa Benedetto.

E poi?

Nell’80 Mons. Domenico Picchinenna mi destinò come Parroco alla Matrice di Ragalna, dove sono rimasto fino al ’90. Da allora sono d’aiuto in Basilica come Canonico della Collegiata e Vicario parrocchiale e curo la Rettoria di Sant’Antonio.

Cosa si sente di dire per questi 50 anni di sacerdozio?

Il tempo è volato! La vocazione viene da Dio ed è un dono grandissimo. Come dice la Scrittura: “nessuno può attribuire a se stesso questo onore se non è chiamato da Dio” (Eb 5,4).

Vorrebbe ritornare in missione?

Ci tornerei volentieri!




Infine, un accenno alla sua passione per la pittura, l’ironia, il cinema, gli animali…

Beh, da piccolo mi piaceva dipingere l’immagine della Madonna dell’Elemosina di cui conservo ancora alcune riproduzioni. L’ironia l’ho ereditata da mio padre, fenomenale raccontatore di barzellette e storielle simpatiche. Anche il cinema da sempre mi ha appassionato sin da quando, da piccolo, mi costruivo un proiettore… negli anni poi ho scoperto una grande passione per gli animali. D’altronde la Scrittura dice: “La tua tenerezza si espande su tutte le creature” (Salmo 144).




P. Nino Tomasello, un “prete fanciullo” in un mondo di “adulti”

di Alessandro Scaccianoce

Ricordare p. Nino Tomasello non è facile. Perché ognuno di noi conserva un ricordo diverso, ed è stato segnato in vario modo da lui.
Dopo averlo scoperto in gioventù, come formatore ed educatore di coscienze, negli ultimi anni ho potuto accostare il suo cuore sacerdotale. Servendo come diacono all’altare durante le sue Messe, quotidianamente, specialmente in questo ultimo anno, ho potuto davvero scrutare la sua preghiera intima e il suo rapporto con il Signore.

P. Nino è sempre stato schivo, molto riservato nell’esternare i suoi sentimenti e le sue emozioni.
E anche nella preghiera preferiva non far vedere come si muoveva il suo intimo. Non a caso preferiva pregare davanti al tabernacolo quando la chiesa era ancora chiusa.

La sua era una fede limpida, cristallina e razionale, nutrita della Parola di Dio. Non amava fronzoli, nella vita come nella preghiera. Rifuggiva gli onori e le luci della ribalta. Qualunque essa fosse. Non amava i primi posti e le attenzioni sulla sua persona. Era l’antifariseo per definizione. Pregava di nascosto e in segreto faceva la sua carità. Come mi hanno testimoniato diverse persone, che in questi giorni mi hanno riferito di aver ricevuto da lui molti aiuti.




Dava il meglio di sé nella direzione personale, con consigli pratici. Essere sacerdote per lui era essenzialmente annunciare il Vangelo. Non amava perdere tempo in faccende burocratiche e viveva con insofferenza le “beghe amministrative”, che lo distoglievano dalla sua missione essenziale.

Aveva in mente una Chiesa comunionale, fondata sulla corresponsabilità dei laici. Amava il confronto aperto e schietto, non era ambiguo e non conosceva finzioni nel manifestare i suoi sentimenti. Lavorare insieme e puntare all’essenziale erano i suoi punti cardine di una Chiesa fresca, moderna, aperta al dialogo con tutti.

Questo ha cercato di fare. Anche con le parole. Ma soprattutto con il suo silenzio e il suo modo di agire, nel saper perdere e nel saper rinunciare. Forse non sempre compreso da una mentalità clericaleggiante, spesso più presente tra i laici che tra il clero stesso. Molto più avanti dei suoi tempi, credeva nella famiglia e nell’impegno sociale e politico. Accanto alla pila dei libri di teologia c’era sempre il quotidiano del giorno, perché la fede che non si incarna e che non diventa vita vissuta – diceva – non incide nella storia.

Su di lui puntò molto l’Arcivescovo Mons. Luigi Bommarito, che lo avrebbe voluto proporre anche per l’episcopato, come mi confidò candidamente alcuni mesi fa. Ovviamente, lui ricusò sul nascere la velleità dell’allora Arcivescovo di Catania.




Fu un piccolo, un bambino in senso evangelico, che faceva fatica a stare nel mondo dei grandi.
E più passavano gli anni, più aumentava la distanza tra il suo “piccolo mondo” e il mondo dei cosiddetti “adulti”, il mondo di chi si faceva guerra per il potere, dentro e fuori la Chiesa, di chi cercava onori e riconoscimenti, di chi rivendicava etichette e steccati. Il suo animo di fanciullo si dovette scontrare più volte con l’esperienza della disillusione. E lentamente si ripiegò su se stesso, per cercare di conservare intatto quel suo “piccolo mondo”, semplice e genuino fino alla fine. Alla vigilia di Natale con un filo di voce al telefono dichiarava: “se il Signore vuole, sono pronto anche ad andare da lui”.

Mi resta un dubbio: è stato un sacerdote dal cuore bambino, sopraffatto dal male del mondo (un male che alla fine gli ha tolto perfino il respiro)? O, forse, il male non è stato capace di vincere la sua “fanciullezza spirituale”, il suo essere figlio, in fiduciosa obbedienza e abbandono nelle mani del Padre? La fine dei giusti – dice il libro della Sapienza – è considerata una sciagura e una disgrazia dalla mentalità del mondo. Ma le anime dei giusti sono nelle mani di Dio. Io sono convinto che lui è stato un giusto, e che adesso riposa in Dio. Come un bambino nelle braccia di sua madre. Nei giorni scorsi ho rivisto il film “La vita è bella!”, in cui l’orrore dell’olocausto è raccontato con gli occhi di un bambino, che alla fine di quella tragica esperienza, vissuta come un gioco per la conquista di un carro armato, grida a squarciagola “abbiamo vinto!”. Padre Nino Tomasello è stato questo bambino, che ha attraversato il male del nostro tempo, da ultimo il Covid-19, e che, nella apparente tragedia della sua vicenda umana, ha vinto, perché è rimasto illeso e ha conservato il cuore piccolo. E – sulla promessa di Gesù – il Paradiso appartiene ai piccoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

Don Antonino Tomasello è entrato nella gloria eterna


“Vieni servo buono e fedele, entra nel Gaudio del Tuo Signore”.
Il Rev.mo Sacerdote Don Antonino Tomasello, già prevosto della Collegiata di S. Maria dell’Elemosina in Biancavilla ed attuale Parroco dell’Annunziata, è entrato nella gloria eterna.
A soli 68 anni, non ce l’ha fatta per le conseguenze del Covid, al quale è risultato positivo esattamente il 9 dicembre scorso, dopo i primi lievi sintomi accusati nel pomeriggio dell’8 dicembre.
Dopo alcuni giorni è stato necessario il ricovero in ospedale e il 28 dicembre è stato intubato.
Pochi giorni fa era deceduta la mamma e qualche giorno prima la zia.
Uomo semplice e umile, sacerdote fedele e puntiglioso, p. Tomasello ha incarnato il Vangelo di Cristo nella sua vita e nel suo ministero presbiterale.
Di profonda spiritualità e vasta cultura, ha promosso una visione della Chiesa comunionale, incoraggiando l’impegno e la corresponsabilità dei laici. Ha dedicato molte energie alla formazione dei fedeli e in particolare alle famiglie.




La Celebrazione Eucaristica e il Rito delle Esequie avranno luogo domani, lunedì 11 gennaio alle ore 16.30 presso la Basilica Collegiata Santuario “S Maria dell’Elemosina” – Chiesa Madre di Biancavilla.
A presiedere la liturgia sarà S. E. Mons. Salvatore Gristina, Arcivescovo di Catania.
L’Associazione “Maria SS. dell’Elemosina” piange la perdita del suo primo Assistente spirituale e prega per la sua anima benedetta, nella certezza che adesso contempla il Volto di Cristo e della Vergine Santa, Madre di Misericordia.
Il caro p. Nino Tomasello possa celebrare in cielo quella liturgia che sulla terra ha officiato più volte e sazi la sua sete di conoscenza, che in vita ha alimentato attraverso lo studio e la lettura, gustando la luce piena di Dio e la verità delle cose. Amen.

MILLE ‘AVE MARIA’ ALLA MADONNA DELL’ELEMOSINA

Dal 25 marzo al 13 aprile, venti corone del Rosario pregate in famiglia, per chiedere la protezione della Santissima Vergine.

  • Un invito a pregare il Rosario in questo tempo difficile
  • Facciamo in casa un angolo per la preghiera con l’immagine della Madonna dell’Elemosina
  • Ogni giorno alle 17 la preghiera del Rosario sulla pagina Facebook Madre di Misericordia
  • Ognuno può condividere foto e video dei propri momenti di preghiera

Fino al 13 aprile, invitiamo tutti a pregare il Rosario in famiglia per chiedere la protezione della Madonna dell’Elemosina dalla presente Pandemia virale.
Riprendendo una antica tradizione, che risale al sec. XV, offriamo alla nostra fortissima protettrice una grande corona di mille Ave Maria, pregando venti corone del Rosario, supplicando la sua potente intercessione.

La Madonna dell’Elemosina, che più volte ha salvato la nostra comunità cittadina, preservi tutti dal pericolo, e particolarmente gli anziani, gli ammalati e le persone più fragili.

Ancora una volta chiediamo a Lei l’”elemosina” necessaria per la nostra vita.
Anche se in questo periodo siamo costretti a rimanere in casa, la preghiera può realizzare quell’unione spirituale di cui abbiamo bisogno per affrontare insieme le difficoltà del momento presente.
Preghiamo da casa, ma uniti spiritualmente.

Il Rosario sarà trasmesso ogni giorno alle 17 sulla pagina Facebook “Madre di Misericordia.

Chi vuole, può inviare la registrazione del Rosario recitato in casa. Si può registrare (in video) col proprio telefonino direzionato verso un’immagine della Madonna dell’Elemosina con accanto un lumino acceso. Potete anche condividere il vostro angolo di preghiera con la Madonna Madonna dell’Elemosina.
Inviate il vostro materiale su whatsapp al numero: 338 579 7933.

Una casa. Una famiglia. Una madre

I Biancavillesi riabbracciano la Basilica Santuario dopo 14 mesi dal terremoto.

Sono tornati a casa, i biancavillesi.

Con la loro numerosa e corale partecipazione, in occasione della riapertura della Basilica Santuario, domenica 12 gennaio, i fedeli hanno dimostrato ancora una volta il loro afflato spirituale e la loro identità cittadina e religiosa insieme, riappropriandosi dell’edificio simbolo della città, che non solo è stato messo in sicurezza, ma è apparso ai loro occhi più splendente di prima.

I nuovi colori – è stato detto – esaltano la bellezza delle linee architettoniche, e scaldano il cuore, nei loro toni caldi e sfumati. Così perlomeno erano stati pensati allorquando nel ‘700 la Basilica assunse questa forma.

C’erano tutte le componenti ecclesiali e aggregative della città, chierici e laici, famiglie e tanti ragazzi, come ha notato anche l’Arcivescovo di Catania.




È stato significativo il fatto che proprio mentre si riapriva lo storico edificio, di cui il Prevosto ricordava la gloriosa storia e i riconoscimenti ricevuti lungo i secoli, l’Arcivescovo abbia voluto porre l’attenzione proprio ai giovani e ai piccoli della comunità, quasi a voler consegnare loro il presente e il futuro dell’edificio e di ciò che esso rappresenta. “Occorre lavorare sull’educazione dei giovani” ha detto il Metropolita.

Perché se è vero che non c’è futuro senza passato e senza radici, non ci può essere neppure un passato che non guardi al futuro, che non sia cioè capace di proiettarsi oltre il momento presente.

Riaffiora l’interrogativo che con arguzia poneva uno scrittore qualche tempo fa: perché quando eravamo poveri costruivamo le cattedrali e oggi che viviamo nella società dell’opulenza facciamo fatica a custodire la bellezza delle nostre città e dei luoghi in cui viviamo, per non dire dell’incapacità di pensare edifici – non solo religiosi – carichi di bellezza?

È ciò che fecero gli antenati biancavillesi quando – come ricordava il Prevosto Salerno – dalla campagna portavano carretti carichi di pietre per alimentare la “fabbrica” della chiesa madre. Un modo semplice attraverso cui tante persone hanno potuto dare il loro contributo anche in tempi di maggiori difficoltà di mezzi e risorse, immaginando di poter consegnare ai loro figli e ai loro discendenti un monumento, che è tornato a  splendere sotto i nostri occhi.

Ieri, in controtendenza rispetto a questo, è stato possibile assistere ad uno spettacolo di bellezza: un bagno di bellezza, un grande segno di speranza, come ha detto ancora Don Agrippino. Nella riapertura dell’edificio simbolo della città di Biancavilla è stato mostrato che il lamento e la critica sterile non servono a nulla. Occorre il coraggio di sognare e di pensare, non solo all’ingrande ma anche all’insegna della bellezza.




Ancora più significativo il fatto che i recenti lavori, durati 9 mesi, sono stati eseguiti da maestranze locali, ditte del posto, che hanno messo a disposizione il loro ingegno e la loro perizia, nella messa in sicurezza dei tetti e delle volte, nella lavorazione dei marmi, nella tinteggiatura delle pareti, nella doratura delle parti decorative in gesso, insieme ad altri interventi di manutenzione necessari.

9 mesi di lavori per riportare a tanto splendore la Basilica sono stati pochi per i tempi della burocrazia che avevano prospettato un’attesa tra i 5 e i 10 anni, ma i complessivi 14 mesi di chiusura dell’edificio (dal 6 ottobre 2018) sono stati tanti per far sentire a tutti la nostalgia di quella casa. Soprattutto perché quella casa ferita rappresentava il ricordo più terribile di quel terremoto ancora molto presente nella memoria di tutti. Per questo la riapertura è stata vissuta tanto più intensamente, come un voler sancire il desiderio di ripartire e di dimenticare, come meglio si può, prima che si può.

Difficile, per chi è stato presente e ha vissuto lo storico momento in cui è stata nuovamente spalancata la porta maggiore della Basilica Santuario e si sono accese tutte le luci della chiesa, poter dire se è stato più bello vedere la “chiesa di mattoni” o la “chiesa di persone” che è stata lì a guardare e a guardarsi, cercando ragioni per la speranza, ragioni per andare incontro al futuro.




È stato un tripudio di gioia la processione con cui i rappresentanti delle confraternite e delle aggregazioni ecclesiali hanno preso simbolicamente possesso della chiesa, aprendo un lungo corteo, tra i canti festanti, sancito dall’Arcivescovo e culminato nel passaggio dell’amata icona della Vergine Santissima dell’Elemosina.

 

Forse per questo, il momento più emozionante è stato quando la Madonna è tornata a splendere sull’altare maggiore, riprendendo il posto che ogni figlio naturalmente conferisce alla propria mamma: al centro del proprio cuore. Presenza discreta e amorevole, silenziosa ma sicura, carica di consolazione e di affetto.

Tante persone, una sola casa, come un’unica famiglia. Forse è anche per questo che, tra i molti titoli altisonanti che l’edificio ha accumulato nei secoli, quello preferito resta sempre quello di “chiesa madre”. Perché come per una madre, sono in lei le sorgenti spirituali e culturali di ogni biancavillese.