Mons. Oliveri: Pasqua è il passaggio di Dio nella vita dell'uomo

Vogliamo sottolineare la celebrazione dell’Ottava di Pasqua con questo breve augurio di S. E. Mons. Mario Oliveri, Vescovo di Albenga-Imperia, che augura ai suoi condiocesani e a tutti i fedeli cristiani  la grazia di lasciarsi permerare dalla presenza di Dio nella propria vita.

Nella celebrazione della Pasqua, la Chiesa rende presente ed efficace per il mondo intero il Mistero Pasquale di Cristo , il Mistero del Passaggio di Dio dentro la vita dell’uomo per redimerla, liberarla dal male e quindi dal peccato, renderla giusta e santa, cosicché in essa si realizzi la  partecipazione alla vita divina. Questa mirabile operazione divina, che opera una mirabile trasformazione nell’uomo, avviene per mezzo della Croce di Cristo, il Figlio Unigenito del Padre fatto Uomo, per mezzo del Mistero della sua Morte e della sua Resurrezione, per mezzo del mirabile passaggio che, nella Natura umana di Cristo, è avvenuto dalla Morte alla Vita.

Ecco: l’ingresso di Dio nell’uomo, affinché l’uomo sia del tutto posseduto da Dio, non può avverarsi se non in Cristo e per mezzo del Cristo, se non nel Mistero della sua Morte e della sua Resurrezione; la Pasqua di Cristo diventa la nostra Pasqua, per mezzo della fede in quel Mistero e per mezzo deiSacramenti che fanno entrare in noi la forza redimente e santificante di quel Mistero.

Si può così comprendere facilmente perché la Chiesa considera la Pasqua, che Essa celebra con la massima solennità, come il Giorno di Dio, come il Giorno in cui, e per mezzo del quale, tutto si rinnova, tutta la vita spirituale dell’uomo, ferita e fiaccata e sconvolta dal peccato, rifiorisce, riprende e si rinvigorisce. Tutto ciò che il peccato ha fatto decadere e corrompere rinasce e risorge, in virtù della gloriosa Resurrezione del Verbo Incarnato, che ha sofferto la Passione, il supplizio della Croce, il tormento della Morte.

Già ho detto che nella Grazia di quel Mistero si entra per mezzo della fede e dei Sacramenti, ma si entra dunque anche e necessariamente per mezzo della penitenza, del pentimento dei peccati e del vero distacco del cuore e della volontà dal peccato: senza questo non v’è redenzione, non v’è rinnovamento, non v’è rigenerazione e nascita a vita divina. Rinnovamento, rigenerazione e rinascita avvengono innanzitutto per mezzo del perdono di Dio, che è la vera liberazione dal peccato.

La grazia quaresimale è già stata grazia pasquale. Chi non avesse saputo ben ricevere e vivere il tempo di grazia che è stata la Quaresima, difficilmente potrebbe avvalersi e gioire della grazia della Pasqua, e trovarsi ben irrobustito in tutta la sua vita cristiana.

Il buon cristiano sempre vive in spirito di penitenza, sempre vive secondo il dono ricevuto della figliolanza divina, sempre vive nella carità e secondo la carità, continuamente rivolto a Dio anche quando si fa vero fratello di chi gli è vicino, di chi egli incontra, di chi egli ama con cuore sincero; anche quando opera per la propria ed altrui vita nel mondo.

Il bisogno continuo di perdono, di rinnovamento e di rinascita, dice al cristiano la necessità di mantenere ferma la speranza nella vita di cui si potrà godere perfettamente soltanto una volta terminato il cammino od il pellegrinaggio nel tempo e nello spazio, una volta che si sarà ammessi all’eterna vita, alla perfetta partecipazione della vita stessa di Dio.

Nella Pasqua, il cristiano mentrenecessariamente ravviva la propria fede, cresce anche nella speranza che dà gioia, che fa superare ogni tristezza, ogni difficoltà ed ogni ostacolo e prova, che la vita quaggiù sempre comporta.

A tutti i cristiani, anche a quelli tiepidi, affievoliti, diventati quasi indifferenti alle cose dello Spirito, il mio augurio di Vescovo è quello di non restare lontani dalla cosi grande opportunità che la Pasqua offre di rivivere, di rialzarsi, di riprendere respiro e speranza, di ritornare a Dio con tutto il cuore, di operare nella giustizia e nella santità.

+ Mario Oliveri, Vescovo

Dio non abbandona mai l'umanità

La Resurrezione commentata dal fondatore dell’Opus Dei

di San Josemaría Escrivá

La sera del sabato Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo, e Salòme comprarono gli aromi per imbalsamare il corpo morto di Gesù.

Il giorno dopo, di buon mattino, arrivano al sepolcro quando il sole è già sorto (Mc 16, 1-2).
Entrando, rimangono costernate perché non trovano il corpo del Signore. – Un giovane, in bianche vesti, dice loro: Non temete, so che cercate Gesù Nazareno: non est hic, surrexit enim sicut dixit, non è qui, perché è risorto come aveva predetto (Mt 28, 5).

La Vita ha sconfitto la morte.

È risorto! – Gesù è risorto: non è più nel sepolcro. – La Vita ha sconfitto la morte.
È apparso alla sua Santissima Madre. – E’ apparso a Maria di Magdala, pazza d’amore. – E a Pietro e agli altri apostoli. – E a te e a me, che siamo suoi discepoli e più pazzi della Maddalena: quante cose gli abbiamo detto!
Non vogliamo mai più morire a causa del peccato. Che la nostra risurrezione spirituale sia eterna.
– E prima di terminare la decina, tu hai baciato e piaghe dei suoi piedi …, e io più audace – perché più bambino – ho posato le mie labbra sul suo costato aperto.
Santo Rosario, 11

Cristo vive. Questa è la grande verità che riempie di contenuto la nostra fede. Gesù, che morì sulla Croce, è risorto, ha trionfato sulla morte, sul potere delle tenebre, sul dolore, sull’angoscia. Non abbiate paura: con questa esortazione un angelo salutò le donne che andavano al sepolcro. Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui (Mc 16, 6).
È Gesù che passa, 102

Gesù Cristo vince sempre

Il giorno del trionfo del Signore, della sua Risurrezione, è definitivo. Dove sono i soldati che le autorità avevano messo di guardia? Dove sono i sigilli che erano stati posti sulla pietra del sepolcro? Dove sono coloro che condannarono il Maestro? Dove sono quelli che crocifissero Gesù?… Di fronte alla sua vittoria, avviene la grande fuga di quei poveri miserabili. Riémpiti di speranza: Gesù Cristo vince sempre.
Forgia, 660 

Dio non abbandona mai i suoi

Gesù è l’Emmanuele, Dio con noi. La sua Risurrezione ci rivela che Dio non abbandona mai i suoi. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (Is XLIX, 14-15). Questa era la promessa e l’ha mantenuta. Dio si delizia ancora di stare tra degli uomini (cfr. Proverbi 8, 31).
È Gesù che passa, 102

Siamo amati da Dio

Il lavoro non è facile, ma abbiamo una guida chiara, una realtà da cui non possiamo né dobbiamo prescindere: siamo amati da Dio. Lasceremo dunque che lo Spirito Santo agisca in noi e ci purifichi, e così abbracceremo il Figlio di Dio crocifisso e risusciteremo con Lui, dato che la gioia della Risurrezione ha le sue radici nella Croce.È Gesù che passa, 66

Giovanni Paolo II e l'imprescindibile primato petrino

di Alessandro Scaccianoce

La sensazione che pervase tutti noi, all’annuncio della morte di Giovanni Paolo II, in quella sera del 2 aprile 2005, fu quella di sentirci più soli. Veniva a mancare il punto di riferimento dell’intera Chiesa Cattolica, il segno vero ed efficace della nostra unità. Non erano chiacchiere – mi resi conto – quelle sul ruolo di Pietro, sul suo primato nella carità. Che ne sarebbe stato della Chiesa? Per molti di noi si trattava del primo evento di questo tipo: la morte del Papa. Un uomo che aveva accompagnato tutta la nostra vita fino a quel momento. Era uno di famiglia. Come immaginarsi senza?

Quell’evento mi fece comprendere l’imprescindibile ruolo del successore di Pietro, che nessun altro organismo può rivestire o ricoprire. Non ci sono creazioni collegiali che possano sostituire il suo ruolo di custode della fede e di garante dell’unità della Chiesa, colui che conferma la fede di noi tutti. Non si tratta di nostalgie monarchiche, perché è nella parole di Gesù che trova fondamento il suo ruolo: “pasci le mie pecorelle!”. Non un primato politico, coercitivo o repressivo, ma un primato di servizio, che illumina, incoraggia e sostiene, rimandando continuamente al Signore.

Alla preghiera di suffragio per il grande dono ricevuto di Papa Giovanni Paolo II,  si aggiungeva, pertanto, in quei giorni l’ansia per un successore che potesse ricoprire altrettanto degnamente il ruolo di “Vicario di Cristo”.

Lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa, con il dono di Papa Benedetto XVI, continuatore e perfezionatore dell’opera del suo predecessore. E mentre la gente, dopo il primo discorso del neo-eletto Pontefice, si affrettava a fare i primi paragoni, dalle differenze fisiche, agli aspetti caratteriali, il cuore si acquietava al pensiero di avere un nuovo Padre Santo. Il Signore  aveva mantenuto fede alla sua promessa: “sono con voi tutti i giorni”. Giovanni Paolo II aveva concluso la sua esperienza terrena. Era il momento di riprendere in mano i suoi insegnamenti, troppe volte dimenticati da chi ne aveva fatto un simbolo di buonismo e di pacifismo, banalizzandone il carattere profetico e cercando di tenere in sordina i suoi richiami alla verità del Vangelo e alle esigenze morali che ne derivano. “Le porte degli inferi non prevarranno”, aveva detto Gesù a Pietro, precisando che sulla sua roccia si sarebbe fondata quella comunità di credenti che nasceva dal suo seno. Perché, se è vero che “dove due o tre sono riuniti nel suo nome” Cristo è in mezzo a loro, è anche vero che “ubi Petrus ibi Ecclesia” e – aggiungiamo in climax ascendente, con tutta la Tradizione vivente della Chiesa: “ubi Petrus ibi Christus, ubi Christus ibi Pax, ubi Christus ibi omnia”.

Ricordando Giovanni Paolo II "Il Grande"

Il 2 aprile 2005 si spegneva il grande timoniere della chiesa, oggi beato. La Redazione del Sito SME, lo ricorda con particolare affetto. 

di Luca Rolandi

Sono trascorsi sette anni dl giorno in cui si spense Giovanni Paolo II. Una lunga agonia che il mondo seguì con ansia e grande partecipazione emotiva e spirituale. Una morte che colpì tutti: credenti e non credenti, cattolici e laici. Era un sabato, l’orologio segnava le 21.37. In quel momento si certificò il passaggio di Karol Wojtyla. Alle 22 la notizia era comunicata da monsignor Leonardo Sandri: “Il Papa è tornato nella casa del Padre” fu l’annuncio in una piazza San Pietro gremita che accompagnò l’annuncio con un unico lunghissimo applauso, pianti e preghiere. In molti restarono in silenzio piangendo, altri continuarono a guardare la finestra al terzo piano del palazzo apostolico con le luci accese. Suonarono le campane in piazza San Pietro. Gli oltre 60mila fedeli riuniti in piazza San Pietro recitarono “l’Eterno riposo”.

Scriveva sull’Osservatore Romano del 2 aprile 2011 Konrad Krajewski “Stavamo in ginocchio attorno al letto di Giovanni Paolo II. Il Papa giaceva in penombra. La luce discreta della lampada illuminava la parete, ma lui era ben visibile.
Quando è arrivata l’ora di cui, pochi istanti dopo, tutto il mondo avrebbe saputo, improvvisamente l’arcivescovo Dziwisz si è alzato. Ha acceso la luce della stanza, interrompendo così il silenzio della morte di Giovanni Paolo II. Con voce commossa, ma sorprendentemente ferma, con il tipico accento montanaro, allungando una delle sillabe, ha cominciato a cantare: “Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore”.

I solenni funerali di papa Wojtyla sono presieduti dal cardinale Ratzinger. Dal 2 all’8 aprile arrivano a Roma tre milioni di pellegrini. In quei giorni, 21 mila persone entrano ogni ora nella basilica vaticana, 350 al minuto. La media di tempo necessaria per vedere i resti mortali del Papa è di 13 ore, mentre il tempo massimo di attesa è di 24 ore. La fila arriva a una lunghezza di cinque chilometri. Il giorno dei funerali 500 mila fedeli seguono le esequie in piazza San Pietro e in via della Conciliazione, mentre 600 mila da altri luoghi di Roma attraverso dei maxischermi. Grandi cartelli in mezzo alla folla dei fedeli invocano «Santo subito». Sei anni dopo il 1 maggio 2011 Karol Woytila era proclamato beato dal suo successore Benedetto XVI.

Nel quarto anniversario della morte papa Ratzinger, il 2 aprile 2009, ricordava così Giovanni Paolo II: “…Come padre affettuoso e attento educatore, indicava sicuri e saldi punti di riferimento indispensabili per tutti, in special modo per la gioventù. E nell’ora dell’agonia e della morte, questa nuova generazione volle manifestargli di aver compreso i suoi ammaestramenti, raccogliendosi silenziosamente in preghiera in Piazza San Pietro e in tanti altri luoghi del mondo. Sentivano, i giovani, che la sua scomparsa costituiva una perdita: moriva il “loro” Papa, che consideravano “loro padre” nella fede. Avvertivano al tempo stesso che lasciava loro in eredità il suo coraggio e la coerenza della sua testimonianza. Non aveva egli sottolineato più volte il bisogno di una radicale adesione al Vangelo, esortando adulti e giovani a prendere sul serio questa comune responsabilità educativa?…”

"Chi e' per noi Gesu' di Nazaret?

Si apre con la Domenica delle Palme la SETTIMANA SANTA che i cattolici vivono in tutto il mondo immersi nella contemplazione della morte e risurrezione di Cristo.

Nella Chiesa universale come in quella locale, rivivono i Misteri principali della Fede.

Redazione SME

“Chi e’ per noi Gesu’ di Nazaret? Che idea abbiamo del Messia, che idea abbiamo di Dio?”. Sono le domande che Benedetto XVI ha pronunciato questa mattina nella straordinaria omelia della messa celebrata in piazza San Pietro in occasione della Domenica delle Palme davanti a 60 mila fedeli.
“E’ questa – ha affermato – una questione cruciale che non possiamo eludere, tanto piu’ che proprio in questa settimana siamo chiamati a seguire il nostro Re che sceglie come trono la Croce; siamo chiamati a seguire un Messia che non ci assicura una facile felicita’ terrena, ma la felicita’ del cielo, la beatitudine di Dio. Dobbiamo allora chiederci: quali sono le nostre vere attese? quali i desideri piu’ profondi, con cui siamo venuti qui oggi a celebrare la Domenica delle Palme e ad iniziare la Settimana Santa?”.
“Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel piu’ alto dei cieli!”, l’acclamazione festosa, trasmessa da tutti e quattro gli Evangelisti, per Papa Ratzinger “e’ un grido di benedizione, un inno di esultanza: esprime l’unanime convinzione che, in Gesu’, Dio ha visitato il suo popolo e che il Messia desiderato finalmente e’ giunto: il Messia porta a compimento la promessa della benedizione di Dio, la promessa originaria che Dio aveva fatto ad Abramo, il padre di tutti i credenti, la promessa che Israele aveva tenuto sempre viva nella preghiera, in particolare nella preghiera dei Salmi”. “Colui che e’ acclamato dalla folla come il benedetto e’, nello stesso tempo – ha scandito il Pontefice – Colui nel quale sara’ benedetta l’umanita’ intera. Cosi’, nella luce del Cristo, l’umanita’ si riconosce profondamente unita e come avvolta dal manto della benedizione divina, una benedizione che tutto permea, tutto sostiene, tutto redime, tutto santifica. Possiamo scoprire qui un primo grande messaggio che giunge a noi dalla festivita’ di oggi: l’invito ad assumere il giusto sguardo sull’umanita’ intera, sulle genti che formano il mondo, sulle sue varie culture e civilta’”.
“Lo sguardo che il credente riceve da Cristo – ha spiegato ancora Benedetto XVI – e’ lo sguardo della benedizione: uno sguardo sapiente e amorevole, capace di cogliere la bellezza del mondo e di compatirne la fragilita’. In questo sguardo traspare lo sguardo stesso di Dio sugli uomini che Egli ama e sulla creazione, opera delle sue mani”. In proposito, il Papa teologo ha citato il Libro della Sapienza, nel quale ci si rivolge al Signore con queste parole: “Hai compassione di tutti, perche’ tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; Tu sei indulgente con tutte le cose, perche’ sono tue, Signore, amante della vita”.
Nell’omelia di oggi il Papa ha ricordato anche l’episodio del cieco nato, Bartimeo, che al passaggio di Gesu’ di Nazaret, incomincia a gridare: “Figlio di Davide, Gesu’, abbi pieta’ di me!”. Si cerca di farlo tacere, ma inutilmente; finche’ Gesu’ lo fa chiamare e lo invita ad avvicinarsi. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”, gli chiede. E quegli: “Rabbuni’, che io veda di nuovo!”. Gesu’ risponde: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. “Bartimeo – ha commentato Benedetto XVI – riacquisto’ la vista e si mise a seguire Gesu’ lungo la strada. Ed ecco che, dopo quel segno prodigioso, un fremito di speranza messianico attraversa la folla” (da S. Izzo).

Devozione e rappresentazione nei riti della Settimana Santa: dalla "scisa ‘a cruci" alla processione dei Misteri

di Alessandro Scaccianoce

Quante volte, leggendo sulle origini dei riti della Settimana Santa e di altre pratiche religiose tradizionali, abbiamo sentito ripetere, quasi meccanicamente, che nascevano dalla gente che non capiva la liturgia in latino? In tal modo si è via via alimentato, soprattutto dopo la riforma liturgica degli anni ’70, una contrapposizione tra la liturgia ufficiale e le pratiche devozionali, che ha portato a sminuire sempre di più il valore della cosiddetta “religiosità popolare”.   Si tratta di una motivazione troppo banale e riduttiva del fenomeno che nei secoli ha visto lo sviluppo di pratiche devozionali extra o para-liturgiche. Non si tratta, infatti, di riti “esplicativi” di liturgie  altrimenti incomprensibili – che la gente invece comprendeva molto bene -, ma di uno sviluppo coerente e logico di quelle stesse celebrazioni. Uno studio ravvicinato delle fonti, infatti, ci consente di poter affermare un dato molto semplice: processioni, devozioni, riti esteriori sono nati su impulso del clero che nel tempo ha voluto, incoraggiato e accompagnato questo tipo di manifestazioni pubbliche di fede. Ciò, tra l’altro, spiega proprio la continuità e la coerenza di questi riti con la liturgia. Se – come sembra – gli antenati di questi riti sono le “Laudi” medievali ciò risulta ancora più evidente. Le Laudi, infatti, erano uno strumento che nutriva e alimentava la preghiera collettiva, diffuso da un vero e proprio movimento di frati-cantori itineranti, come auspicato da S. Francesco, che chiese ad alcuni suoi frati di andare predicando e cantando le lodi di Dio “tamquam joculatores Domini” (come giullari del Signore). Le Confraternite poi furono lo strumento che favorì la diffusione di questi riti.

Le Confraternite nascono come una peculiare modalità comunitaria di vivere la fede. Per tale via il clero cercava di tenere viva la fede dei fedeli, favorendone l’aggregazione e promuovendo l’esercizio di pratiche di pietà tra i confrati, sostenendosi vicendevolmente. Il Concilio di Trento non fece altro che sancire l’ufficialità di questo strumento di evangelizzazione, chiedendo che in tutto l’Orbe cattolico si favorisse la creazione di gruppi di fedeli in forma confraternale. Proprio In tale contesto si ebbe la fioritura delle confraternite nel corso del 600. San Carlo Borromeo, ad esempio, che fu un grande divulgatore delle statuizioni del Concilio Tridentino, profuse grande impegno nella creazione delle confraternite, curandone personalmente – da fine canonista qual era – gli statuti e i regolamenti.  Da Trento e da Milano, poi, il fenomeno si diffuse presto in tutta Italia.

Credo sia importante, allora, per un approccio che ci consenta di capire meglio e più da vicino i fenomeni che abbiamo davanti, rivalutare l’operato del clero e degli ordini mendicanti (Domenicani e Francescani) nel processo di formazione delle manifestazioni religiose popolari che sono sopravvissute fino ai nostri giorni.

Una fonte domenicana del sec. XII dice: “Ad excitandam devotionem fidelium sancta mater ecclesia passionem Christi… annualiter representat” (Per favorire la devozione dei fedeli, la Chiesa ripresenta annualmente la passione di Cristo). Rappresentare la passione, dunque, nasce in seno alla Chiesa, senza distinzione, come vorrebbe fare una certa storiografia, tra Chiesa ufficiale-clero e Chiesa-laici: vi contribuirono in egual misura clero, frati mendicanti e laici disciplinati. Nascono in tal modo le Sacre Rappresentazioni. Ma a questo punto è necessaria un’ulteriore precisazione. L’atto della sacra rappresentazione appartiene, sin dalle origini, più alla sfera della preghiera  che a quella dello spettacolo in senso proprio. Il dramma sacro, seppur distinto dalla matrice liturgica non era “rappresentazione”, ma “concelebrazione”. I protagonisti di questi atti non sono meri “attori”, ma fedeli devoti che si immedesimano, corpo e anima, nel Mistero evidenziato. Pertanto, con riferimento a questi riti, potremmo parlare più correttamente di una devota rievocazione (represantare = rievocare) che ha il solo scopo di commuovere (cioè muovere insieme) la mente dei fedeli alla devozione.

Perciò la devozione si fa rappresentazione e la rappresentazione esprime la devozione:  solo in questa dinamica è possibile  comprendere a fondo la drammaturgia sacra che si sviluppa attorno ai Misteri della Pasqua del Signore.

Ciò detto, possiamo accostarci a guardare più da vicino uno dei riti più antichi, ancora oggi diffuso: la Deposizione del Cristo, che in Sicilia prende il nome di “Scisa a cruci”, e che affonda le sue origini nella “Scavigliazione”.  Si tratta di una cerimonia di Deposizione dalla Croce che trova la sua origine in un’opera del 1200: la “Lauda della Scavigliazione”. Questo rito si ripete annualmente ad Assisi, patria natìa della Lauda stessa. Al tramonto del Giovedì Santo, al termine della messa “in Coena Domini” i canonici della Cattedrale raggiungono l’altare seicentesco del Crocefisso, dove è venerato un Cristo ligneo del XVI secolo. Due sacerdoti, in cotta e stola, salgono su una ripida scaletta fino alla sommità della croce e provvedono a staccare il chiodo dalla mano destra, lasciando cadere il braccio di Cristo lungo il fianco; quindi “scavigliano” l’altro braccio ed in ultimo i piedi. Il Cristo, liberato dai chiodi, viene così deposto e adagiato su un cataletto al centro della chiesa, dove rimane esposto alla venerazione dei fedeli, unitamente all’altare del Sepolcro (ciò conferma la tesi esposta nel mio articolo precedente sull’origine degli altari dei Sepolcri). La breve cerimonia è accompagnata da preghiere e canti.

Questo doveva essere anche il rituale più antico seguito a Biancavilla, noto come “a scisa ‘a Cruci”. Così, infatti, ci sembra di averla rivista, quando, l’anno scorso, questa pratica è stata ripresa dall’oblìo in cui era caduta, per iniziativa del prevosto Agrippino Salerno, che ha così accolto le richieste  formulate da più parti a ripristinare l’antico rito. È bastato riprendere quel Cristo, le cui braccia snodabili avevano sempre testimoniato silenziosamente la sua antica destinazione a questo rituale suggestivo.

Ad Assisi il Cristo deposto in tale forma solenne, la sera del Venerdì Santo viene recato in processione  dalla Cattedrale di San Rufino fino alla Basilica di San Francesco.

E questa, pensiamo, doveva essere anche la forma della più antica processione del Venerdì Santo che si svolgeva a Biancavilla nel corso del 600, quando esisteva un’unica confraternita (quella del Santissimo Sacramento). Del resto, anche nella pietà popolare è difficile immaginare invenzioni o creazioni “ex novo”. Il motore è sempre ed essenzialmente la tradizione (nel senso di trasmissione di un patrimonio). Con la fondazione delle successive confraternite, per il meccanismo della “imitatio-emulatio”, a partire dal 700 si aggiunsero gli altri “Misteri”, del Cristo alla colonna e dell’Ecce Homo, che vennero ad arricchire questa processione. Altri gruppi statuari si sono aggiunti nei secoli successivi, in concomitanza con la fondazione di nuove confraternite (l’ultima nel 2010), facendo della processione serale del Venerdì Santo a Biancavilla uno dei pochi esemplari in Italia.