Gli altari della reposizione erano (e sono anche) sepolcri…

Una riflessione sull’origine degli altari dei sepolcri, allestiti per la custodia delle specie eucaristiche nei giorni del Triduo pasquale. Le foto illustrano alcuni allestimenti artistici realizzati negli anni scorsi presso la Basilica Santuario di Maria SS. dell’Elemosina di Biancavilla. 

di Alessandro Scaccianoce

Al centro dell’anno liturgico sta il Triduo della passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore: è la Pasqua annuale. Di per sé i giorni del triduo sono Venerdì Santo, Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. Il computo, tuttavia, avviene secondo l’uso antico, di origie ebraica, quando il giorno iniziava al tramonto, al brillare delle prime stelle della sera. Pertanto già la messa “in Coena Domini” (nella Cena del Signore), che si celebra la sera del Giovedì Santo, rientra a pieno titolo nel Triduo Sacro. La Messa si conclude con la processione del SS.mo Sacramento all’altare della Reposizione, meglio noto come “Sepolcro”. Si parla, a tal riguardo, di “reposizione” e non di “ostensione” perché più marcata sia la fede nella presenza di Cristo, che pur non vediamo. A partire da questo momento si innestano una serie di manifestazioni religiose popolari collaterali, paraliturgiche.

Fra queste vi è caratteristica la cosiddetta visita ai “sepolcri”. Chi per fede, chi per curiosità, ci si muove nella notte del Giovedì Santo per le vie della città in visita agli altari delle chiese addobbati solennemente. C’è chi, a questo punto, si affretta subito a precisare che “è sbagliato” parlare di “sepolcri”, perché “Gesù non è ancora morto”, e robe simili: si deve dire “altare della reposizione”!…

Tuttavia, il termine latino “Repositorium” (da cui evidentemente derivano le parole “repositorio” e “reposizione”) significa proprio “sepolcro”!

 

Allora la questione è un’altra: perché a questi altari è legato (piaccia o meno) il riferimento alla custodia di un corpo senza vita? Siamo tutti ben d’accordo, infatti, che Cristo, presente nelle specie eucaristiche, è il Vivente per eccellenza.




L’origine del rito dei “Sepolcri” è molto risalente. Ci aiuta in questo J.A. Jungmann, che così scrive ne La liturgia della Chiesa: “All’inizio del secondo millennio… dal Venerdì Santo al mattino di Pasqua si vegliava presso l’Eucaristia deposta insieme alla croce in un “sepolcro”. In tal modo si intendeva onorare le 40 ore di permanenza del corpo di Gesù nel sepolcro”. Sta proprio qui l’origine della pratica delle Quarantore, che nel secolo XVI si è venuta a staccare dalla Settimana Santa per formare una funzione a sé stante. Prosegue lo storico: “Già nel II secolo apprendiamo che venivano onorate le 40 ore, durante le quali il Signore giacque nel sepolcro, con un digiuno completo di altrettante ore (Eusebius, Hist. Eccl. V, 24). In seguito si sviluppò, soprattutto nei paesi nordici, l’uso di erigere nelle chiese il ‘Santo sepolcro’, e il Venerdì Santo (o anche già il Giovedì Santo, dopo la messa) aveva luogo la deposizione nel sepolcro“. Si onorava in tal modo lo spazio di tempo del riposo del Signore nel sepolcro. Secondo la tradizione, infatti, sarebbero 40 le ore in cui il corpo di Gesù sarebbe rimasto nel potere della morte, calcolate tra le 3 del pomeriggio del Venerdì Santo e le 7 della domenica di Pasqua.

Ancora in epoca carolingia è attestata la custodia delle Ostie consacrate in un apposito altare, al termine della Messa “in Coena Domini”. Ciò – è utile ricordarlo – accadeva ad eccezione di tutti gli altri giorni dell’anno, in cui l’Eucaristia veniva conservata nelle sagrestie. Poiché i giorni del Venerdì e del Sabato Santo erano, infatti, a-lituirgici, ovvero giorni in cui non si celebrava il sacrificio della Messa, era necessario conservare delle “riserve” per la Comunione dei fedeli. Questa custodia eccezionale era legata, dunque, proprio ai giorni della passione e morte di Gesù. Era evidente, pertanto, l’identificazione di questi luoghi con quello spazio che conservò il corpo di Cristo in attesa della risurrezione.

Al riguardo, gli storici spiegano che questa storicizzazione dei fatti evangelici, così connaturale alla pietà popolare, rappresenta una delle leggi che hanno contribuito alla stessa formazione del Triduo pasquale.

A ciò bisogna aggiungere, inoltre, che da sempre vi è stata una stretta identificazione tra l’altare e il sepolcro di Cristo. Si fa riferimento, a tal proposito, ad una celebre visione di San Gregorio Magno, in cui il Cristo gli appare proprio sull’altare nell’atto di uscire dal sepolcro con i segni della passione. Così nel tardo Medioevo cominciarono a poco a poco a edificarsi tabernacoli fissi sull’altare in grado di rievocare il sepolcro di Cristo, in continuità con la florida simbologia che spesso identificava la torre eucaristica o la nicchia nella quale si conservava l’eucaristia con il sepolcro. A partire dal Concilio di Trento il tabernacolo venne permanentemente intronizzato sull’altare, sanandosi in tal modo la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Nel linguaggio della liturgia si conserva, infatti, l’idea che il Tabernacolo sia il sepolcro che contiene il corpo di Cristo Risuscitato.

Nello scorrere dei secoli, dunque, si conservò l’usanza di allestire in modo particolarmente ricercato l’altare che custodisce le specie eucaristiche nei giorni del Triduo. Dal XVI secolo in poi s’impose, soprattutto nell’Europa settentrionale, l’usanza di deporre in un sepolcro l’immagine del Redentore morto, circondata da lumi e fiori esponendo, sopra di esso, il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo. In Italia la riserva veniva custodita in un “repositorium” a forma di urna, chiusa a chiave, che in molti casi ricorda una vera e propria bara (ancora oggi ampiamente utilizzata).

Il luogo della custodia, infatti, in tali giorni Santi, mantenne un carattere straordinario: non poteva essere il tabernacolo che custodiva le Sacre Specie nel resto dell’anno, ma un luogo magnificamente ornato, che, in conformità alla lunga tradizione richiamata, richiamava il sepolcro. Lo stesso termine “repositorium”, come detto, è legato al concetto stesso di sepolcro. Nella chiesa velata e oscurata, questo spazio restava l’unico angolo in cui si concentrava l’attenzione dei fedeli attorno al Signore, in attesa della Sua resurrezione.




Oggi, com’è noto, l’altare della reposizione viene utilizzato dalla sera del Giovedì Santo, fino alla Liturgia della Passione del Venerdì Santo, al termine della quale, le Ostie eventualmente rimaste vengono riposte in un luogo nascosto, al di fuori della chiesa. Ciò tende a sottolineare propriamente l’assenza anche fisica del Signore nelle ore in cui il suo corpo è rimasto nel sepolcro. Tale mutamento rituale, rispetto all’origine i questi altari, nati proprio per evidenziare con solennità la permanenza di Gesù nel sepolcro, ci fa capire perché da più parti oggi si tenda a correggere l’espressione “altare del sepolcro” con “altare della reposizione”. Il termine “sepolcro”, tuttavia, non è sbagliato, perché ne esprime il suo originario significato e un intrinseco elemento connaturale al Corpo eucaristico del Signore.

Dal periodo barocco in avanti si registrò una vera e propria apoteosi di macchinari, le c.d. “machinae”, comprendenti sontuosi arredi e addobbi dell’altare della reposizione. Tra gli addobbi tipici di questi altari, ancora oggi in uso soprattutto nell’Italia meridionale, vanno ricordati i fiori bianchi e i germogli dei semi di grano o di lenticchie, coltivati al buio, che simboleggiano il passaggio dalle tenebre della morte alla vita.


In passato, veniva profuso grande impegno nell’allestimento dei ricchi addobbi del sepolcro col duplice intento di esprimere la propria fede verso Gesù Eucarestia nei giorni della sua Passione, e di creare l’effetto “stupore”, per affascinare il fedele spettatore e muovere in lui sentimenti di adorazione al Santissimo Sacramento
. Spesso all’allestimento del sepolcro si accompagnava anche l’addobbo  della chiesa, con altre macchine e numerosi drappi ornamentali di vario colore. Talvolta, tra le diverse Confraternite o Parrocchie, si ingenerava una gara a chi avesse creato il “sepolcro” più bello (i limiti dell’uomo sono tali). Studiosi di tradizioni popolari, tuttavia, rilevano che dagli anni ‘50, successivamente  al rinnovamento dei riti della Settimana Santa (tra il 1951 e il 1955), la prassi di addobbare sontuosamente l’altare del sepolcro è andata lentamente scemando.

Ai sepolcri erano collegate le visite organizzate di gruppi di fedeli. Da qui il detto della “visita alle sette chiese”, perché occorreva visitarne – secondo un’usanza popolare – un numero dispari, tra 5 e 7. A queste visite, dal 500 in avanti, cominciò ad accompagnarsi anche una statua del “Christus Patiens”, che guidava i fedeli in queste processioni, soprattutto nei territori di tradizione spagnola. Ne sono testimonianza molte processioni del Cristo alla colonna o dell’Ecce Homo che si svolgono, ancora oggi, il Giovedì Santo.

Da segnalare, tra le ulteriori peculiarità tradizionali del Sacro Triduo, che in questi giorni le donne evitavano  di spazzare per terra e raccomandavano ai figli di non correre o saltare, perché Gesù era a terra, nel “sepolcro”. Tutta la terra, pertanto, era Santa!




La visita alle chiese, dove è custodito il SS. Sacramento, è ancora oggi, al di là delle mutate circostanze sociali e culturali un’occasione molto opportuna per riflettere nel silenzio della preghiera personale sul mistero pasquale del Signore Gesù.

Certamente l’Eucaristia è il “sacramento della presenza”. Ma ad essa non è estranea l’esperienza della Passione, Morte e Sepoltura del Signore. Nell’Eucaristia Gesù si rende presente come Signore, ma contemporaneamente si offre inerme. E’ “l’impotente efficace”, per dirla con una definizione del card. Scola. E’ una presenza sacrificata, consegnata, che si rimette alla nostra libertà, lasciandosi anche rinchiudere in un’urna, in una passività che è solo apparente. In attesa di vederlo uscire dal sepolcro di molti cuori.

Attenti a quei predicatori… lupi vestiti da agnelli, con il beneplacito di certa gerarchia

Riteniamo molto utile per i nostri affezionati lettori richiamare questo puntuale articolo di Mons. Livi in merito a certi personaggi mediatici, spacciati troppo spesso per profeti. Enzo Bianchi è uno di questi personaggi, che una certa gerarchia continua ad accreditare, seminando confusione nel popolo di Dio. Da alcuni anni, ad esempio, viene invitato a Milano  in una parrocchia del centro per il quaresimale. In uno di questi incontri gli abbiamo sentito negare l’inferno e la giustizia di Dio (che a suo avviso sarebbe “solo” misericordia). Presso la sua comunità molti preti vanno per gli esercizi spirituali…
Fratel Enzo si è ritagliato un ruolo  da “anti-Papa”, ponendosi in opposizione frontale con il Magistero di Benedetto XVI e la Tradizione. Ha contestato il celibato sacerdotale, la dichiarazione Dominus Jesus (dell’allora card. Ratzinger) e ha ritenuto di dire la sua (a che titolo?) anche sul motu proprio Summorum Pontificum, e perfino sulla Madonna di Fatima la quale condannando, tra le ideologie moderne, solo il comunismo (ideologia con cui solitamente simpatizzano modernisti e semi-modernisti), non sarebbe credibile!! 
Eppure, una stampa sedicente “cristiana”, continua a reclamizzare i suoi libri. Basta passare davanti ad una libreria dei Paolini.
 
di Antonio Livi
Priore di Bose
Enzo Bianchi si presenta come il priore della Comunità di Bose, che i cattolici ritengono essere un nuovo ordine monastico, mentre canonicamente non lo è, perché non rispetta le leggi della Chiesa sulla vita comune religiosa. I cattolici lo ritengono un maestro di spiritualità, un novello san Francesco d’Assisi capace di riproporre ai cristiani di oggi il Vangelo sine glossa, ma nei suoi discorsi la Scrittura non è la Parola di Dio custodita e interpretata dalla Chiesa ma solo un espediente retorico per la sua propaganda a favore di un umanesimo che nominalmente è cristiano ma sostanzialmente è ateo.Ecco, ad esempio, come Enzo Bianchi commentava il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto: «Gesù non si sottrae ai limiti della propria corporeità e non piega le Scritture all’affermazione di sé; al contrario, egli persevera nella radicale obbedienza a Dio e al proprio essere creatura, custodendo con sobrietà e saldezza la propria umanità» (Avvenire, 4 marzo 2012). Insomma, un’esplicita negazione della divinità di Cristo, il quale è ridotto a simbolo dell’etica sociale politically correct, l’etica dell’uomo che – come scriveva Bianchi poco più sopra – deve «avere il cuore e le mani libere per dire all’altro uomo: “Mai senza di te”» (ibidem).Grazie al non disinteressato aiuto dei media anticattolici, Enzo Bianchi ha saputo gestire molto bene la propria immagine pubblica: quando si rivolge a quanti si professano cattolici, Enzo Bianchi veste i panni del “profeta” che lotta per l’avvento di un cristianesimo nuovo (un cristianesimo che deve essere moderno, aperto, non gerarchico e non dogmatico, cioè, in sostanza, non cattolico); quando invece si rivolge ai cosiddetti “laici” (ossia a coloro che hanno smesso di professarsi cattolici oppure non lo sono mai stati ma desiderano tanto vedere morire una buona volta il cattolicesimo), Enzo Bianchi si presenta simpaticamente come loro alleato, come una quinta colonna all’interno della Chiesa cattolica (se non piace la metafora di “quinta colonna” posso ricorrere alla metafora, ideata da Dietrich von Hildebrand, di “cavallo di Troia nella Città di Dio”).Ora, che i media anticattolici (il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, L’Espresso) ospitino volentieri i sermoni del profeta della fine del cattolicesimo (così come ospitano i sermoni di tutti i piccoli e grandi intellettuali, cattolici e non, che auspicano una Chiesa cattolica senza più dogma, senza morale, senza sacramenti, senza autorità pastorale) non desta meraviglia, visto che si tratta di gente che porta acqua al loro mulino; invece, che i media ufficialmente cattolici si prestino (da almeno dieci anni!) a operazioni del genere fa comprendere fino a qual punto di confusione dottrinale e di insensibilità pastorale si sia arrivati nella Chiesa, almeno in Italia (anche se forse negli altri Paesi di antica tradizione cristiana le cosa stanno pure peggio).

Ho parlato di “insensibilità pastorale”, perché è evidente che organi di informazione che sono istituzionalmente al servizio della pastorale (penso a Famiglia Cristiana, che fu fondata da chi voleva promuove l’apostolato della “buona stampa” e che per decenni è stata diffusa soprattutto nelle chiese; penso ad Avvenire, quotidiano voluto da Paolo VI e gestito dalla Conferenza episcopale) non dovrebbero contribuire alla diffusione di ideologie che sono per l’appunto l’ostacolo massimo che oggi la pastorale si trova davanti. La pastorale infatti è costituita essenzialmente dalla catechesi e dall’evangelizzazione, ossia dall’offerta della verità e della grazia di Cristo a chi già crede e a chi ancora deve arrivare alla fede. Come si fa a portare la verità e la grazia di Cristo agli uomini (quelli di oggi, non diversamente da quelli di ieri) se si nasconde loro che Cristo è il Salvatore, cioè Dio stesso fatto Uomo per redimerci dal peccato e assicurarci la salvezza eterna? Come si fa ad avvicinare gli uomini all’Eucaristia, fonte della vita soprannaturale, se agli uomini di oggi si nasconde il mistero della Presenza reale, se non li si educa allo spirito di adorazione, se si annulla la differenza tra l’umano e il divino, se la “comunione” di cui si parla non è principalmente con Dio ma esclusivamente con gli altri uomini (e “comunione” vuol dire solo solidarietà, accoglienza, “fare comunità”)?

Come si fa a far amare la Chiesa di Cristo, «colonna e fondamento della verità», se viene messo in ombra il carisma dell’infallibilità del magistero ecclesiastico, se viene esaltato lo spirito di disobbedienza e la critica demolitrice della legittima autorità stabilita da Cristo stesso? Insomma, non è certo segno di sensibilità pastorale orientare il criterio dottrinale dei propri lettori (per definizione si suppone che siano cattolici) con i discorsi bonariamente eretici di Enzo Bianchi. Il quale, peraltro, non fa mistero della sua piena condivisione delle proposte riformatrici di Hans Küng, che con il linguaggio tecnico della teologia dogmatica ha enunciato e continua a enunciare le medesime eresie che Bianchi enuncia con il linguaggio retorico della saggistica letteraria. Nessuno si è sorpreso infatti leggendo sulla Stampa di Torino un recente articolo di Enzo Bianchi (13 marzo 2012) nel quale il priore di Bose ribadisce il suo sostegno alle tesi di Hans Küng, prendendo occasione da una nuova edizione italiana del suo Essere cristiani.

Hans Küng, che è il più famoso (meglio si direbbe famigerato) di tutti i falsi teologi che hanno diffuso nella Chiesa cattolica, a partire dalla seconda metà del Novecento, le ideologie secolaristiche che oggi costituiscono quell’ostacolo alla pastorale del quale parlavo. Lo esalta presentandolo come una specie di “dottore della Chiesa” ingiustamente inascoltato, guardandosi bene dal ricordare (ma lo sanno persino molti lettori della Stampa) che il professore svizzero ha sempre negato la verità dei dogmi della Chiesa e il fondamento teologico della morale cattolica, disconoscendo sempre la funzione del magistero ecclesiastico (a partire dal libro intitolato Infallibile?). Küng non è stato scomunicato né è stato messo a tacere (peraltro, tutti gli editori più importanti dell’Occidente scristianizzato hanno pubblicato e diffuso le sue opere), e non c’è ragione alcuna per la quale egli debba presentarsi ed essere presentato come una vittima della repressione da parte della gerarchia ecclesiastica.

Per disegnargli intorno alla testa l’aureola della santità, Enzo Bianchi parla di Küng come di un protagonista del Vaticano II, facendo finta di ignorare che un concilio ecumenico è un’espressone solenne del magistero ecclesiastico (protagonisti ne sono soltanto i vescovi, e i documenti approvati al termine dei lavori hanno un eminente valore per la dottrina della fede in quanto convocato, presieduto e convalidato dai Papi) e non un convegno internazionale di teologi (Hans Küng, come “perito”, non ha avuto nel Concilio né voce né voto). Insomma, Enzo Bianchi vorrebbe far credere che Küng, malgrado i suoi meriti teologici, non avrebbe ottenuto dall’autorità ecclesiastica la benevolenza e i riconoscimenti che gli spettavano; addirittura, insinua Bianchi, alla Chiesa conveniva mettere Küng, piuttosto che il suo collega Ratzinger, a capo della congregazione per la Dottrina della fede.

Sono assurdità che possono andar bene solo per i lettori della Stampa (quotidiano di collaudata tradizione massonica), ai quali non importa nulla della fede cristiana ma sono ben contenti di vedere la Chiesa cattolica in preda a una profonda crisi dottrinale e disciplinare, sperando che tutto ciò affretti la sua definitiva scomparsa dalla scena sociale e politica. Ma Bianchi è ospitato anche dalla stampa cattolica, e in quella sede l’assurdità di cui parlavo dovrebbe essere percepita da qualcuno.

Qualcuno dovrebbe rinfacciare a Bianchi l’ipocrisia di presentare come vittima del potere ecclesiastico senza dire che il teologo svizzero non ha mai voluto riconoscere la legittimità (cioè l’origine divina) di questo potere, che ad altro non serve se non alla custodia fedele e alla interpretazione infallibile della verità che salva. Bianchi si guarda bene dal riferire tutte le contumelie e gli insulti che Hans Küng è solito scrivere (anche in italiano, sul Corriere della Sera) contro quei papi (soprattutto Paolo VI e Giovanni Paolo II) che non gli hanno dato ragione (e come avrebbero potuto?).

 
tratto da: La Bussola quotidiana
 

Bianchi appartiene, se si vuole, all’ultima generazione del neo-modernismo post-conciliare, in compagnia di vari teologi e intellettuali cattolici che si caratterizzano da un lato per l’eterodossia (ovvero l’eresia) delle posizioni (tutti gli autori censurati dal Magistero negli ultimi anni, da Küng a padre Sobrino, sono di questa corrente spuria) e dall’altro per l’enorme presenza sui media, purtroppo anche cattolici (“Avvenire” e “Famiglia Cristiana” in primis).

Gesù deposto dalla croce, tra le braccia di Maria

di Alessandro Scaccianoce

Com’è noto, la pietà popolare tende a rappresentare “drammaticamente” la verità stoica dei fatti di Gesù. Da una veloce analisi dei riti tradizionali della Settimana Santa diffusi nell’Orbe cattolico emerge subito il fatto che si tendono a evidenziare alcuni aspetti della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo che non hanno un riscontro immediato nei Vangeli, o sui quali gli stessi Vangeli non ci forniscono molti dettagli: l’Addolorata che si muove alla ricerca del Figlio e che lo segue nelle ultime ore della sua vita terrena, la grande enfasi posta sulla Deposizione di Cristo dalla croce, l’incontro di Gesù con la Madre nel giorno della sua risurrezione, sono alcuni esempi.

Occorre subito precisare che questa mancanza di piena corrispondenza con il dato evangelico non intacca minimamente la profondità e la verità di questi riti. Per quanto riguarda, infatti, il ruolo della Madonna nell’esperienza pasquale del Signore,  da sempre la Tradizione vivente della Chiesa, l’ininterrotta trasmissione della fede, ha avuto grande considerazione per il suo dolore e la sua partecipazione, tanto da attribuirLe il ruolo di “Corredentrice”. Molti scrittori cristiani lungo i secoli si sono soffermati a contemplare la grandezza di Maria al fianco del Cristo.

Uno di questi, in particolare, Simeone Metafraste, autore del X secolo, è considerato come l’ispiratore della devozione alla Vergine Addolorata, raffigurata nelle sembianze della Pietà.

Il Metafraste sostiene, infatti, che Ella fu presente dall’Ultima Cena fino al Calvario. In quei momenti la Vergine Maria dimostra la sua qualità di donna straordinaria, che “osa guardare in faccia una realtà così dolorosa… sopporta la violenza che il dolore esercita sulla sua natura di madre… che resta profondamente stupita di fronte alla prodigiosa capacità di sopportazione del Figlio”. L’autore elabora un vero e proprio lamento della Madre sul Cristo morto, un precedente rispetto al più noto lamento di Jacopone da Todi (“Donna de’ Paradiso”). Un testo che racconta della Vergine col cadavere di Cristo sulle ginocchia che si rammenta di quando lo cullava bambino.

Eccone uno stralcio: “Questo dolore ora si pasce delle mie lacrime… O figlio mio, morto spogliato delle sue vesti, o verbo di Dio vivente! Sei stato condannato ad essere elevato in alto sulla croce, affinché potessi attirare tutti a te. Quale parte del tuo corpo si è sottratta alla sofferenza?… O Figlio più antico della Madre! Quali lamenti sepolcrali, quali funebri lamentazioni potrò mai cantarti?.. in me tu hai infranto le leggi della natura”. Quindi Metafraste descrive le tenerezze materne riversate sul corpo piagato: “Con amore baciò i suoi purissimi piedi e le piaghe impresse su di essi e accostate le guance e gli occhi unì le sue lacrime al sangue di lui… Anche dopo la morte del Figlio, raccolse quell’acqua e quel sangue che, come se egli fosse ancora vivo, continuavano a sgorgare dal suo costato aperto”.




Queste parole hanno ispirato l’iconografia a noi nota come la “Pietà”, considerata di origine nordica (nata forse in Germania nel Trecento), in cui la Santa Vergine si china sul Figlio deposto dalla croce e ne abbraccia la figura. La Madonna stringe il corpo tra le braccia e lo copre di baci. Si capisce, inoltre, anche perché – secondo il calendario liturgico tridentino – la festa della Mater Dolorosa, opportunamente, veniva celebrata nel Venerdì della Prima settimana di Passione, (ovvero il venerdì che precede la Domenica delle Palme).


Personalmente, trovo molto suggestive anche alcune espressioni poetiche dialettali siciliane che dipingono, se possibile, con una incisività anche maggiore, questi momenti della Passione del Signore e dello strazio della Sua Santa Madre.

Dal “Passiu Santu” che si recita annualmente a Buccheri:

Banditore: Maria s’apprisenta e pieri ‘a cruci ppì chianciri lu sa figghiu duci.
Maria: Ti visti nasciri, ti visti crisciri, nun ti pozzu viriri ‘ncruci muoriri; t’ha datu u latti mia, tu ca si la vita mia dammi aiutu, dammi confortu: nun ti pozzu viriri mortu!

(Traduzione: Banditore: Maria si accosta ai piedi della croce per piangere il suo dolce figlio. Maria: Ti ho visto nascere, ti ho visto crescere! Non riesco a sopportare lo strazio di vederti morire in croce! Io ti ho dato il mio latte, tu, che sei la mia vita, dammi aiuto, confortami, perché non posso reggere il dolore di vederti morto).

L’intensità emotiva suscitata dalla contemplazione del dolore della Madonna col Figlio esanime tra le braccia, spiega l’esigenza universalmente diffusa di ritrovare la Vergine Maria nel mattino di Pasqua, tra i primi destinatari delle apparizioni del Risorto. Ella che fu associata alla passione di Cristo, conservando nel cuore la fede nella Sua risurrezione, nel silenzio del Sabato Santo, certamente fu tra coloro che fecero esperienza del Signore risorto. Tale dato doveva essere talmente ovvio che nessuno degli evangelisti sentì l’esigenza di annotarlo. Ma la Tradizione vivente della Chiesa ha sempre e costantemente creduto e celebrato nel giorno di Pasqua la “gioia” di Maria, la Madre del risorto.

Tempo di Passione: dalla velatura delle immagini alla svelata pasquale. Teologia e tradizione di un rito antico

Pubblichiamo un accurato studio sulle origini e sul significato teologico e spirituale di un rito antichissimo, che caratterizza le ultime due settimane di Quaresima, dette “Tempo di Passione”.

di Alessandro Scaccianoce

Con la quinta domenica di Quaresima si entra nel “Tempo di Passione“, caratterizzato da una marcata attenzione al mistero della Passione e Morte del Signore Gesù.

In origine limitata alla sola Settimana Santa, che si apriva con la Domenica delle Palme, detta appunto “De Passione Domini”, nel tempo la contemplazione della Passione del Signore, culmine della Redenzione e fonte di vitalità spirituale, venne anticipata e celebrata anche nella settimana precedente.

Questo tempo speciale, che si inserisce nel già propizio tempo di Quaresima, viene sottolineato con alcune specifiche regole cultuali. Tra queste la più caratteristica è la “Velatio”, ovvero la velatura delle croci e delle immagini della chiesa esposte alla venerazione dei fedeli. A norma del Messale tridentino, nel sabato che precede la I domenica di Passione, (quindi il sabato della IV settimana di Quaresima), «finita la Messa e prima dei Vespri si coprono le croci e le immagini della chiesa con veli violacei; le croci restano coperte fino al termine dell’adorazione della croce da parte del celebrante il Venerdì Santo, le immagini fino all’intonazione del Gloria nella Messa della Vigilia Pasquale». In tale periodo solo le immagini della Via Crucis restano senza velo. Il giovedì santo la croce dell’altare maggiore, per il tempo della Messa, si copre con un velo bianco.

Si tratta di un rito molto antico risalente addirittura al sec. IX, forse un retaggio della separazione dei penitenti pubblici nella chiesa. I penitenti pubblici erano i fedeli che si erano resi colpevoli di gravi peccati dopo il Battesimo. Questi, dopo un periodo di penitenza, nel periodo precedente la Pasqua, venivano riammessi alla comunione la mattina del Giovedì Santo, con un apposito rito. Nel tempo, poi, tutti i cristiani furono assimilati ai penitenti pubblici, nella consapevolezza della necessità per tutti di un tempo di penitenza in preparazione alla Pasqua del Signore. Così cominciò a diffondersi l’abitudine di nascondere ai fedeli l’altare maggiore, per mostrare visivamente gli effetti del peccato, che rompe la comunione con il Signore e ne oscura la visione.




Da sempre, infatti, la liturgia si esprime in una ricchezza di segni che rendono manifesta la realtà dei Misteri celebrati sull’altare. Salvo qualche tentazione iconoclasta, che periodicamente riemerge nella storia della Chiesa.

Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, motiva questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti […] per introdurre i fedeli con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

E così, come per la liturgia è importante la presenza dell’immagine, altrettanto rilevante è la sua assenza. Il nascondimento dei Santi e di Cristo stesso aiuta ad alimentare l’attesa del giorno di Pasqua, giorno in cui quei volti si offrono nuovamente al nostro sguardo.

Al di là della sua origine, il rito della “Velatio” conserva ancora oggi un profondo significato e una intensa capacità catechetica ed emotiva: nascondere alla vista le immagini dei Santi aiuta a concentrarsi su Colui che è l’origine di ogni santità. Egli è colui che rende accessibile il cielo agli uomini. Senza di lui la nostra vita non avrebbe più una dimensione trascendente, sarebbe un vagare nelle tenebre del peccato e “nell’ombra della morte”. La velatura delle croci sottolinea anche fisicamente la privazione di Cristo, il “venir meno dello sposo”: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi” dice il profeta Isaia (53,8).

Quei veli che nascondono il Cristo alla nostra vista stanno a ricordare che quell’evento riaccade ancora oggi. Che anche noi siamo “tra gli uccisori di Cristo”, tra quelli che lo volevano gettare dal precipizio della città di Nazaret, o lapidarlo nel tempio di Gerusalemme. Si tratta, dunque, di un segno efficace che aiuta a meditare, riflettere e pregare sulla tragicità della condizione umana senza la presenza del Dio redentore.

Si capisce, allora, che nella I Domenica di Passione – secondo il calendario tridentino – venga proclamato il Vangelo di Giovanni che fa esplicito riferimento al nascondimento di Gesù di fronte ai suoi nemici: “Iesus autem abscondit se et exivit de templo” (Gesù si nascose e uscì dal tempio, Gv 8,59). Sembrerebbe che, in passato, la velatura del Crocifisso avvenisse proprio mentre il Diacono cantava questo versetto.

Nella sua ricchezza di significati il segno della “Velatio” rimanda anche alla velatura della Divinità di Nostro Signore, che possiamo illustrare con queste splendide parole di Sant’Agostino sulla passione del Signore: “Dio era nascosto; si vedeva la debolezza, la maestà era nascosta; si vedeva la carne, il Verbo era nascosto. Pativa la carne; dov’era il Verbo, quando la carne pativa? Eppure neanche il Verbo taceva, perché c’insegnava la pazienza”. La gloria di Cristo, dunque, è eclissata sotto le ignominie della Passione.

Lo scenario delle nostre chiese, con immagini, dipinti e simulacri velati, ci ripropone l’esperienza del “Deus absconditus” (Dio nascosto), su cui molta teologia ha scritto. In tale contesto, Dio va cercato nel proprio cuore, è lì che deve risorgere. Risulta particolarmente efficace al riguardo questa citazione di B. Pascal: “Gli uomini sono nelle tenebre e nella lontananza da Dio, che è nascosto alla loro coscienza. Egli non sarà colto che da quelli che lo cercano anzitutto nel cuore”. Questi sentimenti sono particolarmente accentuati alla sera del Giovedì Santo, in cui si fa memoria del “rapimento di Gesù” da parte delle guardie del tempio. Da quel momento egli è in balìa della loro ferocia. “E’ l’impero delle tenebre” (Lc 22,4), come afferma Gesù stesso.

Questa atmosfera in antico culminava nel caratteristico “Ufficio delle tenebre”, ovvero nella celebrazione del mattutino e delle lodi del Giovedì, del Venerdì e del Sabato Santo.
Ad ogni salmo veniva spento uno dei 15 ceri posti su un apposito candeliere (la “Saetta o Tenebrarium”) a forma di triangolo. Tutta la chiesa veniva così gradualmente immersa nel buio. Rimaneva accesa la candela più alta  (simbolo della fede di Maria, che è rimasta viva anche nel silenzio della morte di Cristo).

Dopo la riforma liturgica la pratica della “Velatio”, è stata pressoché universalmente abbandonata, sulla scorta di un malinteso “spirito conciliare”. In realtà, questo rito, di cui abbiamo cercato di spiegare la profondità e la ricchezza, conserva tutta la sua attualità. Si rese necessario, pertanto,  un intervento chiarificatore della Congregazione per il Culto Divino circa l’opportunità di conservare o recuperare questa usanza, come indicato nella lettera circolare Paschalis sollemnitatis del 16 gennaio 1988:
«L’uso di coprire le croci e le immagini nella chiesa dalla domenica V di Quaresima può essere utilmente conservato secondo il giudizio della conferenza episcopale. Le croci rimangono coperte fino al termine della celebrazione della passione del Signore il Venerdì Santo; le immagini fino all’inizio della Veglia Pasquale» ( n. 26). La Conferenza Episcopale Italiana, dal canto suo, ha sempre fatto rinvio agli usi locali.


La stessa circolare specifica nel capitolo IV a proposito della Messa Vespertina del Giovedì Santo nella Cena del Signore: “Terminata la Messa [in Cena Domini] viene spogliato l’Altare della Celebrazione. E’ bene coprire le Croci della Chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della Domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle Immagini dei Santi”.

Nel rito ambrosiano tale pratica è estesa addirittura a tutta la Quaresima, in cui la forte meditazione sulla passione del Signore è sottolineata dai venerdì a-liturgici, in cui cioè non si celebra l’Eucaristia, e dall’uso del colore nero per tutte le ferie del tempo. A norma del Sinodo XLI n° 513 “nel pomeriggio del sabato precedente la prima Domenica di Quaresima nelle Chiese ed Oratori si devono coprire tutte le immagini sacre, siano dipinte o siano scolpite, che sono poste in venerazione, non quelle di ornamento”.

Significativa, poi, è la svelatura delle immagini, che – come abbiamo visto – avviene in due momenti diversi:  il Venerdì Santo viene scoperto il crocifisso, mentre tutte le altre immagini al gloria del Sabato Santo. Dopo il tempo in cui Cristo è stato sottratto ai nostri sguardi, ci viene restituito innanzitutto nell’immagine del “trafitto”. E’ questa la prima immagine che ci consegna la passione del Signore: un cuore aperto, donato fino all’ultima goccia di sangue e acqua. “Velum templi scissum est”, dicono i Vangeli. Quel velo che separava il Sancta Sanctorum (ovvero la parte più sacra del tempio di Gerusalemme) dal resto del Tempio, in cui  poteva accedere (una volta all’anno) il Sommo Sacerdote, viene lacerato alla morte di Cristo. In quel momento si “ri-vela” universalmente l’intima natura di Dio stesso nel cuore trafitto di Cristo. Il significato di questo velo è, come è stato ben scritto da autorevoli commentatori ed esegeti, che gli uomini sono separati da Dio a causa del peccato. La lacerazione del velo del Tempio, pertanto, sta a significare l’unione della terra con il cielo, rendendone l’accesso aperto ad ogni uomo. Ed ecco che la sapienza della Chiesa offre tutto questo alla nostra contemplazione attraverso il rito dell’adorazione della Croce che – secondo la forma più antica – viene svelata solennemente di fronte ai fedeli. In questo giorno si rendono evidenti le parole di Gesù: Questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29).




 

A questa prima “ri-velazione” del Venerdì Santo, fa seguito, nella Veglia Pasquale, la definitiva liberazione delle immagini di tutti i Santi. Il Cristo risorto, infatti, associa alla sua gloria quanti lo hanno seguito da vicino, testimoni della Sua redenzione. Penso all’efficace iconografia bizantina che raffigura la risurrezione di Cristo nell’atto di trarre dagli inferi Adamo ed Eva. Si capisce, allora, che le immagini dei Santi vengano svelate dopo che è stato dato l’annuncio della risurrezione di Cristo, al canto del “Gloria in esxcelsis”: “In lui risorto, tutta la vita risorge”, canta il Prefazio di Pasqua.

In Sicilia, tale prassi è molto ben documentata. Alla velatura delle immagini, infatti, la I Domenica di Passione, corrisponde lo svelamento dell’altare maggiore che ha luogo alla vigilia di Pasqua. Al canto del gloria, mentre si sciolgono le campane, il lungo telone scuro (vi sono esemplari alti  anche più di dieci metri) che ha nascosto il presbiterio nelle due settimane precedenti, viene lasciato precipitare giù, restituendo ai fedeli l’altare maggiore con il simulacro del Cristo risorto in bella vista: “a calata ’a tila” (calata della tela).  Tale rito si è conservato anche quando il rito liturgico è stato spostato dal mezzogiorno alla notte del Sabato Santo. A questo momento, detto anche “a risuscita”, si legavano poi varie tradizioni popolari e contadine: come quella di trarre auspici dal numero di candele che rimanevano accese nonostante il forte spostamento d’aria generato dal repentino precipitare giù del telo. Questa tradizione si conserva tutt’oggi in molti centri della Sicilia (da Adrano e Belpasso a Nicolosi, da  San Giovanni la Punta a Catenanuova, da Comiso a  Petralia Sottana, fino alla chiesa di San Domenico a Palermo).

Anche a Biancavilla la “Velatio” è attestata, come dimostrano, se non altro, molti teli violacei conservati nei più remoti angoli delle sacrestie delle chiese più antiche.

Nella Chiesa Madre, inoltre, vi era un grandissimo telone, di circa 10 metri di altezza per 6 metri di larghezza, riproducente la scena della deposizione del Signore dalla croce, che ricopriva tutta l’area presbiterale durante il tempo di Passsione. Questa “tela”, probabilmente settecentesca (come le tele superstiti di alcuni paesi vicini),  nel tempo andò deteriorandosi, fino ad essere ripartita intorno agli anni 60 in piccole parti e divisa tra alcuni fedeli che ne fecero gli usi più vari (qualcuno anche per raccogliere le olive!). Circa dieci anni fa, per iniziativa di alcuni giovani, tale usanza è stata ripristinata, con una nuova tela realizzata ex novo dal M° Giuseppe Santangelo, che ne ha fatto anche un bellissimo esemplare per la chiesa dell’Annunziata. Tuttavia, la tela non viene utilizzata tutti gli anni e l’incontro degli occhi con il Signore Risorto è affidato ad altre soluzioni.




Il telo che nella notte del Sabato Santo precipita rovinosamente ha un definitivo significato escatologico: esso sta ad indicare che al nostro orizzonte è restituita la visione dell’al di là. Possiamo guardare con fiducia oltre la morte, poiché il Vivente sta lì, “primogenito di molti fratelli”, ad assicurarci che il nostro destino è il cielo, ovvero la profondità delle cose. Con la sua risurrezione Cristo ha guarito la nostra “cataratta” spirituale. E il segno della tela lo esprime in modo eloquente.

Alla fine della Veglia Pasquale, quei teli raccattati alla svelta, accantonati in un angolo, ci ricordano la realtà “fisica” della risurrezione. Anche per noi si rende possibile l’esperienza dell’Apostolo Giovanni che “vide i teli per terra” ed entrato, “vide e credette” (Gv 20,13).

C'è bisogno di Maestri (e di Padri)… che insegnino a vivere

All’indomani della festa di San Giuseppe, festa dei papà, troviamo interessante pubblicare queste riflessioni di uno degli scrittori più autorevoli del momento. D’Avenia, 30 anni, professori di liceo a Milano, ci invita a riscoprire il ruolo paterno nell’educazione dei giovani, dalla famiglia alla scuola.

 di Alessandro D’Avenia

Un maestro è colui che, nella cornice di un relazione viva, risveglia in un altro essere umano forze e sogni potenziali e ancora latenti. Egli è chiamato a fare della propria unicità e del proprio intimo coltivarsi (la sua cultura) un dono al discepolo, che altrimenti non desidererà coltivare sé stesso, scoprendo chi è e che storia irripetibile è venuto a raccontare. Il maestro in sostanza è un pro-vocatore: uno che chiama l’altro ad assumere la propria vita come compito, come vocazione. Diventa te stesso, dice in ogni suo gesto e parola. Questo hanno fatto i grandi maestri di vita di tutti i tempi (da Socrate a Gesù Cristo).

L’essere umano è un mammifero stranamente in controtendenza rispetto all’evoluzionismo. Invece di tirar fuori zanne e artigli, il cucciolo d’uomo è costretto ad un lunghissimo svezzamento senza il quale non è autosufficiente. Il bambino prima (e l’adolescente dopo) ha bisogno di essere accudito ed educato, altrimenti non sopravvive. Dovranno occuparsene la madre che lo ha generato, che instaura una relazione protettiva, come il grembo in cui lo ha custodito per nove mesi, e il padre che invece ha il compito di spingerlo ad affrontare il mondo aiutandolo a resistere e convivere con le proprie paure. Se un papà lancia in aria il bambino, la mamma impaurita chiederà di metterlo giù. La mamma lo ancora alla madre-terra, allo spazio orizzontale, il padre invece con le sue braccia forti lo lancia verso lo spazio verticale, il futuro: il bambino rimane sospeso, senza fiato, ma sa che le braccia lo aspettano di nuovo. Il padre educa il figlio all’assenza, al silenzio, alla distanza. Gli insegna la pazienza e l’attesa, mentre la madre è in contatto fisico diretto e accogliente, lo protegge dall’esterno. Abbiamo imparato ad andare in bicicletta con i nostri padri. Rimanevano distanti e ci dicevano: “Ora vai, non aver paura. Se succede qualcosa io sono qui”. La nostra mamma sarebbe invece salita sulla bici al posto nostro e ci avrebbe detto “tu stai seduto là, mangia la merenda e guarda”.

Gli insegnanti sono chiamati ad una sintesi dei due ruoli genitoriali, paterno e materno. Proteggere e sfidare, contenere e lanciare, con sapiente gradualità e studente per studente. Non tutti i docenti riescono in questo difficile compito, continuamente da riaffermare; può allora supplire l’equilibrio tra il numero di figure maschili e quello di figure femminili presenti in un consiglio di classe. Ma questo nella scuola italiana di oggi è quasi impossibile.

La prevalenza di figure femminili è un dato di fatto che ha radici semplici: quale padre può mantenere oggi una famiglia facendo l’insegnante? Questa situazione si riflette (o è il riflesso) di una prassi familiare. Sono rari i casi in cui ai colloqui con i docenti si presentano i papà, rarissimi quelli in cui ai colloqui sono presenti entrambi i genitori. Come mai? Forse l’educazione è affare di uno solo? O affare solo delle mamme?

L’assenza o marginalità dello stile maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. Le scorgo nei miei studenti: insicuri e fragili, perché a volte privi o privati della autostima che un adolescente interiorizza grazie soprattutto alla figura paterna. Per una ragazza di 14-15 anni l’uomo più importante è suo padre, non certo il fidanzato. Diventano vittime della loro emotività elevata a sistema di valutazione del reale, poco educati come sono alla tenuta, al dolore, al silenzio, alla frustrazione in vista di un obiettivo ancora lontano.

Freud ha chiarito una volta per tutte che il padre è colui che pone il limite, mentre la madre eliminerebbe ogni ostacolo sul cammino del figlio. Il padre insegna che la vita va resa sacra (sacrificata) per qualcosa o qualcuno, mentre per la madre è la vita stessa del figlio ad essere sacra. La madre dà la vita, il padre invece ricorda che c’è la morte: quindi la vita va spesa per qualcosa. Sono necessari entrambi per l’equilibrio della donna e dell’uomo in formazione.

Questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri. La differenza tra un padre e un padrone sta qui. Chi non ne è capace, confessi che non sa farsi obbedire dai figli”. Proprio in questi giorni sto lavorando con i miei studenti su I fratelli di Terenzio, da cui sono tratte queste parole e dalla quali (insieme ad una collega) partiremo per un approfondimento sui sistemi educativi antichi e moderni, passando per l’epocale “We don’t need no education” dei Pink Floyd. Dopo più di 30 anni da quell’urlo liberatorio, ci rendiamo conto che abbiamo sempre più bisogno di “education”, per primi gli adulti con compiti di guida e di potere, spesso troppo impegnati a perseguire il bene particolare e il profitto, per fare onore ai maestri, che hanno in custodia le donne e gli uomini del futuro, il vero bene comune di un Paese.

E' sopravvissuta all'aborto… ora Gianna racconta la sua storia

Hanno provocato grave sgomento in tutto il mondo le dichiarazioni di pochi giorni fa di 2 studiosi australiani che sostengono: “l’aborto dopo la nascita (cioè l’uccisione di un neonato, n.d.r.) dovrebbe essere consentito in tutti i casi in cui lo è l’aborto, anche nei casi in cui il neonato non è handicappato”. La migliore risposta, ci sembra, è questa luminosa testimonianza di una donna sopravvissuta all’aborto.

 

Redazione SME

Gianna Jessen è una ventitreenne americana che è stata abortita perché ritenuta indegna di vivere, ed è invece miracolosamente sopravvissuta. Sua madre si è rivolta alla Planned Parenthood nella California (il più grande ente abortista del mondo) al settimo mese di gravidanza. Un aborto tardivo come ne vengono fatti a migliaia: consiste nell’iniezione di una soluzione salina nell’utero della madre, la quale viene inghiottita dal bambino corrodendolo letteralmente, dentro e fuori. La madre partorisce così un corpo morto entro 24 ore.

Nel caso di Gianna, tuttavia, la tecnica non ha funzionato e lei è nata viva, dopo 18 ore. E’ riuscita a sopravvivere, nonostante pesasse solo nove etti; tuttavia la carenza di ossigeno causata dall’aborto le ha procurato una paralisi cerebrale e muscolare. Nonostante la paralisi cerebrale Gianna imparò a camminare con tutore all’età di 3 anni. Fu adottata a tre anni. A vent’anni, grazie alle cure mediche e alla fisioterapia, è riuscita a ottenere la capacità di camminare senza tutore, seppure con notevoli difficoltà.

Gianna Jessen è una delle tantesopravvissute all’abortoche oggi rivendicano il diritto di nascere ai neo-concepiti. Sulla sua pelle e sul suo fisico porta ancora le conseguenze di quel tentativo di soppressione. Ma con Gianna la morte non ha prevalso.

Oggi gira il mondo, invitata nei Parlamenti e in televisione, per raccontare la sua storia e il terribile crimine che ha subito in nome dei “diritti della donna”. Testi integrali dei suoi discorsi è possibile trovarli sul sito Postaborto.it. Ecco alcuni passaggi: «Sono felice di essere viva. Sono quasi morta. Ogni giorno ringrazio Dio per la vita. Non mi considero un sottoprodotto del concepimento, un pezzo di tessuto, o un altro dei titoli dati ad un bambino nell’utero. Ho incontrato altri sopravvissuti all’aborto, sono tutti grati per la vita. Quando parlo, non parlo solo per me stessa, ma per gli altri sopravvissuti ed anche per quelli che non possono parlare…Oggi, un bambino è un bambino, quando fa comodo. È un tessuto o qualcos’altro quando non è il momento giusto. Lo slogan oggi è: “libertà di scelta, la donna ha il diritto di scegliere”, e intanto la mia vita veniva soppressa nel nome dei diritti della donna. Tutta la vita è un dono del nostro Creatore, dobbiamo onorare il diritto alla vita. La morte non ha prevalso su di me… ed io sono così grata!!!».

Ed ecco il link al discorso davvero sconvolgente che Gianna ha tenuto l’8 settembre 2008 davanti al Parlamento australiano:

http://www.youtube.com/watch?v=AKztjBZ6bm0&feature=player_embedded

Il 6 febbraio 2012 Gianna è intervenuta anche nella tramissione “L’Italia sul 2” per raccontare la sua esperienza:

http://www.youtube.com/watch?v=gKogSkbMcJA&feature=player_embedded