I cristiani digiunano ancora?

Redazione SME
 
I credenti oggi digiunano ancora in preparazione alla Pasqua? È ancora osservato il precetto dell’«astinenza dalle carni»? E, più in generale, il senso cristiano della penitenza rimane vivo o viene scalzato da un certo buonismo “pastorale”? Esperti e teologi interpellati sulla questione variano le loro considerazioni al riguardo. Il giudizio di padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, è netto: «Fare penitenza in Quaresima significa imparare a vincere le passioni momentanee per ricordarci dell’essenziale, vivere i quaranta giorni di deserto col Signore e non con noi stessi. Credo che stiamo perdendo questa abilità dello spirito cristiano».
 
Per Lucio Coco, studioso di patristica occorre recuperare il senso profondo del “fare a meno” per motivi spirituali: «La quaresima ci ricorda questo: “Fatti un po’ da parte, cedi il passo, smetti di accontentare te stesso, pensa agli altri. Riduci il tuo io, non cedere alla lusinga della tentazione che ti promette potenza”». La parola “penitenza”, spiega il patrologo, ha nella sua etimologia la radice “pena”: «Riecheggia un certo senso di giustizia che noi esercitiamo nei confronti di noi stessi privandoci di qualcosa. Tuttavia non rende la ricchezza del termine greco che traduce, “metánoia”. In questo caso non prevale la pena, ma il cambiamento di abitudini, pensiero e stili di vita». Conversione, dunque: «Io posso anche digiunare ma non come un automatismo. La penitenza dei Padri, cioè la conversione, prima della giustizia prevede un atto di fede. Diversamente, senza questo nostro re-inserirci in Dio, ogni nostra azione risulterebbe slegata perché priva di quell’atto di fede in Cristo, presupposto di ogni autentica penitenza».

Cettina Militello, docente al Marianum di Roma, conferma la percezione della «perdita della dimensione penitenziale come palestra di autoriconduzione ai valori veri. Ciò si inscrive nella cesura della fede, ovvero la rottura della trasmissione della fede che è un tutt’uno con la perdita culturale di un modello austero del vivere, del parlare, dell’agire».
 
«Non ho dati o numeri precisi ma posso attestare, dalla mia frequentazione del mondo giovanile che tra i giovani forse il 10% sa e pratica il digiuno e non mangia carni i venerdì di quaresima. Il panorama su questo aspetto è desolante e preoccupante». La sconsolante disamina viene da un esperto in materia, il teologo Massimo Salani, docente allo Studio teologico di Camaiore (Lu) e all’Issr di Pisa. 
 
E oggi, com’è la situazione? «Tra i fedeli, salendo con l’età, ci si trova davanti ad una pratica del digiuno frutto più che altro di tradizione, ma non di convinzione». Occorre riscoprire le motivazioni spirituali del digiuno, ma anche l’astinenza dalle carni va rimotivata: «Il problema non è tralasciare la bistecca e mangiare salmone, ma capire che quanto spendo per la carne posso donarlo agli ultimi».E oggi servono nuove forme di digiuno? Gli esperti interpellati avanzano proposte. Spadaro: «Occorre recuperare una “passività buona”. Noi agiamo spesso come risposta a stimoli. L’interattività è la categoria del nostro agire. Invece è necessario un tempo per “limitarsi” a guardare, leggere o ascoltare senza cedere alla tentazione a rispondere agli stimoli: “Ho fame, dunque mangio; arriva una mail dunque devo leggerla, …”. Questa passività consiste nel riuscire a farsi incontrare dalle cose, dalle persone, da Dio. Se viene cancellata, non c’è lo spazio perché qualcosa di “nuovo” possa nascere nella nostra vita, tanto meno la conversione». Coco evoca il “non necessario”: «Si cerca di estendere il digiuno ad altre pratiche, quali spegnere il televisore o evitare il superfluo. In alcuni casi ho notato la tendenza recente a evitare le varie forme di giochi e scommesse che stanno proliferando». Salani sostiene di voler «difendere il valore del digiuno alimentare. I Padri sostenevano che “il digiuno è l’anima della preghiera”. Non è questione di estetica o di perdere qualche etto, ma di riscoprire il legame che lega digiuno, preghiera e carità».

In nessun luogo come nella Chiesa le donne sono emancipate

Il rapporto di Gesù con le donne  è stato molto forte. Rispetto, accoglienza e valorizzazione della diversità potremmo considerale le caratteristiche dei molti incontri del Signore con le donne, che troviamo sparsi per il Vangelo.

Redazione SME

Di seguito un elenco, approssimato per difetto, degli episodi del Vangelo che narrano del rapporto di Gesù con le donne:

• Lc 8, 1-3 (donne alla sequela di Gesù)
• Lc 10, 38-42 (a casa di Marta e Maria)
° Gv 8, 1-11 (l’adultera)
• Lc 8, 43-48 (l’emorroissa)
• Mt 26, 6-13 (unzione a Betania)
• Lc 7, 36-50 (Gesù, il fariseo e la peccatrice)
• Mt, 20, 17-28 (annuncio passione; la madre dei figli di Zebedeo)
• Mt 20, 29-34 (i due ciechi di Gerico)
• Gv 4, 3-42 (la Samaritana)

Tuttavia, tra tutti, l’episodio più significativo è quello della Risurrezione, nel quale Gesù affida proprio a delle donne il compito di portare a tutti la notizia (Mc 16). Gesù ha dato grande dignità alle donne, le quali erano, a quei tempi, escluse e relegate ai margini della società. Anche nella frase più discussa del Vangelo “Che ho da fare con te, donna? Non è ancora giunta la mia ora!” (Gv 2,1-12) Gesù tenta di far comprendere a Maria che ora il suo essere figlio si trasforma nell’essere Figlio del Padre per compiere unicamente la sua volontà, e, contemporaneamente chiede anche a lei di superare il suo stesso ruolo ed essere pronta a diventare Madre dell’umanità; una volta sulla Croce Egli tornerà ad essere il Gesù di Nazareth che ha bisogno della mamma.
Cosa significa, dunque, ricordare le donne l’8 marzo? Una donna che lavora, che accudisce i figli, eleva  a Dio la preghiera più  bella. L’umanità deve loro un riconoscimento che non va discusso né celebrato in modo superficiale, soprattutto per tutte quelle che sono vittime, ancora oggi, di soprusi, di violenza, di emarginazione e quant’altro.

La Chiesa stessa è straordinariamente al femminile.
Teologicamente generata da una donna (Maria), la Chiesa sa essere materna ed accogliente, proprio come il grembo di una madre. Questa maternità, non solo si riversa sui suoi membri, ma effonde su di essi il senso dell’appagamento che l’essere madre porta con se.

Con buona pace delle femministe, possiamo affermare che in nessun luogo come nella Chiesa le donne siano emancipate pur senza avere ruoli gerarchici e ufficiali, si tratta di una emancipazione, per così dire, esistenziale, che trasforma in profondità donando consapevolezza di essere “persone”, quindi una dignità inattaccabile perché inserita nel profondo dell’io. Sull’insegnamento di Cristo, la Chiesa sa che le donne rappresentano una forza straordinaria e non sostituibile, una risorsa unica e speciale. Niente bigottismo dunque nelle donne credenti, ma forza e coraggio, dolcezza e determinazione insieme, comprensione e sollecitudine, speranza e certezza, sguardo proiettato al futuro ma piedi saldi per terra, concretezza e preghiera, un mix che può venire soltanto dalla certezza che il Maestro è con loro. Proprio come Marta e Maria (Luca 10, 38-42), le donne di fede si riconoscono tra preghiera e azione, sono l’una e l’altra, sapendo equilibrare l’esigenze del loro spirito con quelle del servizio.

Le donne, che da sempre hanno saputo conciliare nel loro profondo lavoro e famiglia, sanno operare questa fusione meravigliosa tra fede e vita interpretando l’oggi, il tempo presente, come tempo di Dio e donandosi senza riserve.

La testimonianza di Claudia Koll: "Maria mi ha insegnato ad essere donna"

Nel giorno in cui si festeggia la donna, ci sembra opportuno proporre la  testimonianza di Claudia Koll, l’attrice che ha riscoperto nella Vergine Maria un nuovo modo di essere donna.

Redazione SME

E’ cresciuta in una famiglia particolarmente devota alla Madonna e alla base della sua conversione, avvenuta una decina di anni fa, c’è proprio la Vergine Maria. Lourdes e Fatima, in particolare, hanno giocato un ruolo decisivo nella vita spirituale di Claudia Koll.

La sua infanzia non è stata una delle più facili: è stata cresciuta da una nonna non vedente ma fervente cattolica che, per non perdere mai il contatto con la nipotina, era solita legarla al polso con un filo di lana. “Mia nonna è stata il più grande esempio di fede nella mia famiglia –  racconta Claudia -. La vedevo recitare quotidianamente il Rosario e parlare direttamente con Dio. La sua testimonianza mi ha segnata in modo indelebile”.

La madre di Claudia, nei primi anni di vita della bambina, trascorse davvero poco tempo con lei, per motivi di salute. “Dopo che mi ebbe partorito ricevette una trasfusione di sangue infetto e rimase per sei mesi tra la vita e la morte. Quando poi mamma fu finalmente guarita – spiega l’attrice – andammo con tutta la famiglia a rendere grazie alla Madonna di Pompei. Sempre come ringraziamento alla Madonna sono stata battezzata con il nome completo di Claudia Maria Rosaria”.

“Recentemente ho riaperto i bauli con le foto della mia vita. In mezzo agli scatti del mio periodo adolescenziale ho trovato un’immagine del Gesù della Divina Misericordia: mi ha fatto pensare che, già allora, il Signore mi stava parlando ma io non lo ascoltavo, anzi, iniziai ad andare in tutt’altra direzione”.

La Koll racconta di aver vissuto le proprie aspirazioni artistiche – inizialmente ostacolate dalla famiglia – come un mezzo per appagare il proprio bisogno di libertà e di autenticità, salvo accorgersi, specie dopo essere diventata famosa, che quel tipo di libertà era assai poco autentica.

Dopo il successo del film erotico Così fan tutte (1992) di Tinto Brass, la Koll rimase per qualche tempo intrappolata nel cliché dei ruoli sexy, tuttavia, confessa, “non era quello che veramente volevo. Questo mi procurò una crisi di identità che, se già avessi avuto la fede, avrei saputo affrontare meglio”. Verso la metà degli anni ’90, la carriera cinematografica della Koll incontrò una fase di stallo, durante la quale, l’attrice meditò di abbandonare le scene e riprendere gli studi. Nella seconda metà dello stesso decennio tuttavia la sua carriera prese definitivamente quota con la conduzione del Festival di Sanremo del 1995, della trasmissione L’angelo su Canale 5, dedicata all’arte, e della celebre fiction Linda e il brigadiere, con Nino Manfredi.

Claudia Koll si rivelò artista duttile, talentuosa e raffinata ma, nella vita privata, si scoprì profondamente inquieta ed infelice. “In particolare la mia vita sentimentale era assai problematica: molte storie brevi, nessuna veramente ‘importante’, molti tradimenti, poche certezze”.

Questa inquietudine ebbe ripercussioni negative anche sulla vita artistica della Koll. “Un giorno stavo interpretando la parte di una donna che doveva piangere: a differenza del solito le lacrime proprio non mi uscivano; qualcosa mi bloccava, non entravo proprio nella parte”, racconta.

“Fu allora – prosegue – che Geraldine, la mia assistente di scena, mi rivolse parole molto schiette ed esplicite: Claudia, come puoi pretendere di essere credibile in scena, se nella tua vita privata c’è così poca autenticità?”. Era la voce del Signore che si faceva sentire.

Da quel momento inizia il graduale cambiamento interiore e spirituale di Claudia Koll. “Sono una figlia del Grande Giubileo – dice -. Nel 2000 un’amica americana mi chiese di accompagnarla a varcare la Porta Santa a San Pietro ed io lo feci come cortesia personale. Dopo quell’esperienza, però, non fui più la stessa”.

“Il Signore stava sgretolando tutti i miei piani e le mie ambizioni personali – racconta -. Avevo davvero toccato il fondo”.

Negli anni successivi, l’attrice ha vissuto la propria crescita spirituale attraverso l’esperienza concreta dell’amore come mezzo di perseveranza, in particolare nella vicinanza ai poveri e ai malati.

Fu così che ha riscoperto la devozione mariana nella propria vita, accennando alle emozioni provate dopo i pellegrinaggi a Medjugorie e a Lourdes. “Da bambina rimasi colpita dalla storia della Madonna di Fatima e di come la Vergine avesse potuto affidare a tre bambini così piccoli, dei compiti così enormi”.

“Pensando in particolare a Giacinta e Francesco, da piccola pregai la Madonna di portarmi in cielo con Lei. Ciò non è successo, però, Maria mi ha insegnato a scoprire il bello dell’essere donna, di esprimere al meglio tutte le mie qualità femminili: la dolcezza, lo spirito materno. Grazie a Lei sono diventata anche meno aggressiva”.

Ho inoltre capito quanto sia bella la diversità e la complementarità tra uomo e donna – aggiunge -. In un certo senso il Signore mi ha ‘corretta’ nel mio femminismo”.

Ho scoperto che Dio è fedele e mantiene le promesse: la più grande di queste promesse è quella di amarci”, dichiara la Koll.

Da alcuni anni Claudia Koll è impegnata in opere di misericordia e di formazione cristiana. Per tali scopi ha dato vita alla onlus “Le Opere del Padre”.

La bellezza di una donna cristiana…

La telegiornalista Costanza Miriano, di cui abbiamo già parlato in un post dei giorni scorsi, autrice del libro “Sposati e sii sottomessa”,  torna a parlare dei temi a Lei cari: il ruolo della donna nella nostra società e la sfida della vera emancipazione. Ed è subito attualità.

Redazione SME

Festa dell’8 marzo, una ricorrenza che è un “totem” per le femministe. Altre donne, invece, vorrebbero abolirla. Quanto è grande oggi la discriminazione delle donne?

Personalmente, non vedo tante donne così discriminate, salvo casi, che non voglio sminuire, di maltrattamenti. Vedo piuttosto una figura dell’uomo sempre più svilita, indebolita, sentimentalizzata, costretta a ruoli di cura ed accudimento che non sono propriamente maschili. Parlare di un uomo come autorevole, energico o forte equivale ormai quasi a insultarlo, a bollarlo come prepotente o maschilista. Io invece credo che i due ruoli vadano assolutamente ritrovati e valorizzati, essendo l’uno complementare all’altro. Quindi le rivendicazioni femministe non le condivido.

Qual è oggi l’esigenza fondamentale di una donna che va preservata e tutelata? Carriera, rappresentanza politica o altro?

Se spengo la televisione e se chiudo i giornali, se guardo alle donne ‘in carne ed ossa’ che conosco, le rivendicazioni che loro fanno sono sulla maternità, sui figli; non vogliono essere costrette a lavorare o, quantomeno, vogliono farlo, dando un contributo alla società, senza essere costrette ad abbandonare i figli per un tempo irragionevole. Credo sia questa la vera battaglia: quella delle mamme.

Quindi nessun tetto di cristallo da abbattere, nessuna recriminazione per la conquista di ruoli di potere?

Sul fronte della “emancipazione” la battaglia è ampiamente vinta: si pensi che il direttore del mio TG, Bianca Berlinguer, e il mio direttore generale, Lorenza Lei, sono donne… Per acquisire ruoli “di potere”, che hanno tempi e modi maschili, però, le donne devono accantonare la famiglia, la parte umana.

Insomma, è, ancora una volta, la tesi del tuo libro: uomini e donne devono recuperare la loro diversità…

La Bibbia afferma: “maschio e femmina li creò”. La distinzione sessuale non è una ‘carrozzeria esterna’ ma si riferisce a due incarnazioni diverse dell’amore di Dio. L’uomo dovrebbe avere il ruolo della guida: se inizia anche lui a cambiare i pannolini o a preparare le pappe non potrà essere autorevole… La più nobile vocazione per la donna, d’altro canto, è risvegliare il bene che c’è nell’altro, favorire la sua crescita come scriveva il card. Ratzinger nel 2004. È colei che dona la vita prima al suo bambino e poi a coloro che ha intorno, con la sua capacità di valorizzare i talenti, di mettere in relazione, di accogliere, di mediare, di vedere le cose da più punti di vista.

Insomma, un po’ come in epoca preistorica: l’uomo caccia e la donna raccoglie…?

Credo sia importante che la donna torni ad abbracciare il suo ruolo, perché, come tutto quello che la Chiesa ci insegna, è per la nostra felicità più profonda. Vedo tante donne che hanno rinnegato questa parte più femminile della loro vocazione, che hanno investito tutto sul lavoro, o meglio sulla carriera, rinunciando ai figli e, alla fine, ne soffrono.

Qual è stato il modello femminile della tua vita?

Ne ho molti. Le donne che sanno ‘spargere la vita’ davanti a sé sono tutte profondamente cristiane. Due di loro, guarda caso, sono entrambe madri di sei figli: una ha scelto di rimanere a casa, l’altra di fare il medico. Quest’ultima, con un’attività privata, quindi elastica come orari, è riuscita ad armonizzare bene famiglia e lavoro.
Penso, però, anche a suor Elvira, della Comunità Cenacolo di Saluzzo, che è madre, in un altro modo, di migliaia di ragazzi. Prima di lei abbiamo avuto moltissime sante: Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux, Caterina da Siena, Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), Gianna Beretta Molla, tutte donne molto forti e coraggiose che mi ispirano e a cui vorrei somigliare.

Come coniugare bellezza, cura del corpo e spiritualità?

Noi donne cattoliche, talvolta, ci illudiamo che curando lo spirito si possa fare a meno di curare il corpo, invece io credo che per una donna sposata sia quasi un dovere essere piacevole. Io stessa amo essere un minimo vanitosa e “frivola”! Spesso ho le encicliche del Papa sporche di smalto… Non vedo nessun contrasto tra la bellezza fisica e quella spirituale. Io amo molto lo sport e tuttora lo pratico. La bellezza è un dono: va accolto, coltivato e custodito, ovviamente senza “buttare le perle ai porci”, senza esibirla in modo volgare.

Che dire dell’uso della donna nei media? C’è una strumentalizzazione del corpo della donna? E’ tutta colpa della solita cultura maschilista imperante?

Credo che quello che vediamo in televisione è il naturale esito della battaglia femminista. Penso che i mezzi di comunicazione possano restituire dignità alla bellezza femminile, non censurando o condannando, né sottolineando il male, ma mostrando che la vera bellezza e la vera felicità sono altro. La sfida di noi cattolici non è fare i moralisti o i bacchettoni: non è questo che convince il cuore. Dobbiamo fare vedere una bellezza più grande, testimoniando, anche con lo smalto e i colpi di sole, che la vera felicità è un’altra. Non è detto che una donna che ha molti figli e vive tutta la vita con un unico marito, debba per forza abbrutirsi. Dobbiamo mostrare la profonda ragionevolezza della fede e l’infelicità profonda ed inevitabile che viene dal non credere. Non credo possa esistere una felicità senza Dio, il nostro cuore è fatto per Lui. Nemmeno per Brad Pitt e Angelina Jolie ci sarà alcuna felicità senza Dio!

2 Marzo: nascita ed elezione di Pio XII

 Redazione SME

Eugenio Pacelli, è nato a Roma il 2 marzo 1876, ed è stato eletto al soglio pontificio col nome di Pio XII il 2 marzo 1393.

 

Preghiera per la glorificazione

del venerabile Pio XII, Pontefice Romano

 

Signore Gesù Cristo,

Ti ringraziamo per aver donato alla Chiesa il papa Pio XII,

maestro fedele della Tua verità e pastore angelico.

Egli, con dottrina sicura e mite fermezza,

ha esercitato il supremo ministero apostolico

guidando la Tua Chiesa attraverso il mare agitato delle ideologie totalitarie,

ha aperto le braccia di Pietro, senza distinzione,

a tutte le vittime dell’immane tragedia della II guerra mondiale

ammonendo che nulla è perduto con la pace, opera della giustizia;

con umiltà e prudenza ha dato rinnovato splendore alla Sacra Liturgia:

e ha manifestato la gloria di Maria Santissima proclamandone l’Assunzione al Cielo.

Fa’, o Signore, che sul suo esempio

impariamo anche noi a difendere la verità,

a obbedire con gioia al magistero cattolico

e a dilatare gli spazi della nostra carità.

Per questo ti supplichiamo,

se è per Tua maggior gloria e per il bene delle nostre anime,

di glorificare il Tuo servo, il Papa Pio XII.

Amen

Testo: don Nicola Bux

Imprimatur: Angelus Card. Bagnasco

La causa di papa Pacelli per la Chiesa è finita: si attende adesso la conferma divina, l’imprimatur del Cielo sulla convinzione degli uomini che Eugenio Pacelli ha vissuto sino in fondo, ”in modo eroico“, le virtù evangeliche. Si attende, in particolare, che siano vagliati i casi (uno soprattutto, nella diocesi di Sorrento: una donna incinta guarita da un linfoma maligno), inesplicabili per la scienza e, per la Chiesa, miracoli. Segni, cioè, della potenza di intercessione presso Cristo del candidato a essere venerato sugli altari come “Beato Pio XII”.

Le ragioni della penitenza spiegate dai Papi e dai Santi

di Padre Alessandro Ricciardi icms*

Il 13 luglio del 1917, i tre Pastorelli di Fatima videro un angelo in procinto di colpire il mondo con la sua spada fiammeggiante, a causa degli innumerevoli peccati degli uomini. Fu l’intervento premuroso del Cuore Immacolato di Maria che lo fermò, prima che potesse dare seguito al suo intento.

L’angelo invitò, però, tutti gli uomini al pentimento gridando per ben tre volte: «Penitenza, penitenza, penitenza!». La Vergine stessa, a Fatima, ha richiamato più volte l’importanza del sacrificio, oltre che della preghiera. Lo stesso appello lo aveva dato alcune decine di anni prima a Lourdes, tramite santa Bernardetta.

Appelli materni forse tanti volte rimasti “inascoltati”, o, meglio, “poco ascoltati”. Oggi si trovano tanti disposti a vivere l’invito alla preghiera, ma molti di meno sono coloro che abbracciano la penitenza in spirito di riparazione per i peccati propri e altrui e per implorare la conversione dei peccatori.

Eppure tutti i cristiani, per legge divina, devono sentirsi chiamati alla pratica della penitenza, ciascuno a proprio modo. La Quaresima è il tempo propizio per riflettere e meditare sulla nostra risposta a questo aspetto della vita cristiana.

Il Compendio del Catechismo afferma che «la penitenza si esprime in forme molto varie, in particolare con il digiuno, la preghiera, l’elemosina. Queste e molte altre forme di penitenza possono essere praticate nella vita quotidiana del cristiano, in particolare nel tempo di Quaresima e nel giorno penitenziale del venerdì» (n. 301); esse devono occupare un posto di primo piano nell’esistenza del credente.

Gesù non si è limitato a fare orazione. Bensì ha praticato anche il digiuno, e per quaranta giorni! Il Signore è venuto a fare penitenza per tutti noi, è venuto a espiare per tutti noi. Egli ha sofferto nella sua carne, non soltanto nello spirito; nel momento culminante della sua passione interiore, quando agonizzava nel Getsemani, vi è stata anche una partecipazione della sua carne: sudava sangue.

Analogamente, nel massimo momento del suo patire esteriore, cioè la sua Crocifissione, ha voluto che noi sapessimo della sua passione interiore: «Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?».

Egli è il vero Penitente, che ha vissuto la penitenza espiatrice, riparatrice, redentrice, glorificatrice di Dio, nella totalità del suo essere, spirituale e materiale. Con la nostra penitenza noi diventiamo partecipi del mistero della sua Croce, «completando nella nostra carne ciò che manca alla sua passione», come scrive l’apostolo Paolo.

La mortificazione è un altro modo di pregare; la potremmo definire – con le parole di San Josemaría Escrivà – «l’orazione dei sensi». Tutti i maestri di spirito insistono sul valore e sull’importanza della mortificazione nella vita cristiana. La Chiesa stessa ha sempre esortato alla penitenza.

Scriveva il beato Giovanni XXIII: «La prima penitenza esteriore che tutti dobbiamo fare è quella di accettare da Dio con animo rassegnato e fiducioso tutti i dolori e le sofferenze che incontriamo nella vita, e tutto ciò che importa fatica e molestia nell’adempimento esatto degli obblighi del nostro stato, nel nostro lavoro quotidiano e nell’esercizio delle virtù cristiane».

Tra gli altri – numerosi – esempi, il servo di Dio Paolo VI poneva «tra i gravi e urgenti problemi» che doveva affrontare, «non ultimo» quello di richiamare «il significato e l’importanza del precetto divino della penitenza».

Suggeriva il santo Fondatore dell’Opus Dei, San Josemarìa: «La battuta che non uscì dalla tua bocca; il sorriso amabile per colui che ti annoia; quel silenzio davanti a un’accusa ingiusta; la benevola conversazione con i seccatori e gli importuni; quel non dare importanza ai mille particolari fastidiosi e impertinenti delle persone che vivono con te […]. Tutto questo è davvero solida mortificazione interiore… Non dire: quella persona mi secca. Pensa: quella persona mi santifica». Il giovane santo gesuita Giovanni Berchmans un giorno ebbe a dire: «La vita comunitaria è la mia più grande penitenza».

Dobbiamo offrire, però, non soltanto la penitenza “accettata”, ma anche quella “cercata”, che, nel caso assuma forme non “ordinarie”, deve essere sempre fatta con il consiglio e l’approvazione del proprio direttore spirituale o del confessore.

Ancora Giovanni XXIII: «Oltre le penitenze che dobbiamo necessariamente affrontare per i dolori inevitabili di questa vita mortale, bisogna che i cristiani siano così generosi da offrire a Dio anche mortificazioni volontarie, ad imitazione del nostro divin Redentore…. Siano in ciò di esempio e di incitamento anche i santi, le cui mortificazioni inflitte al loro corpo spesso innocentissimo ci riempiono di meraviglia e quasi ci sbigottiscono. Davanti a questi campioni della santità cristiana, come non offrire al Signore qualche privazione o pena volontaria da parte anche dei fedeli, che forse hanno tante colpe da espiare? Esse sono tanto più gradite a Dio, in quanto non vengono dall’infermità naturale della nostra carne e del nostro spirito, ma sono spontaneamente e generosamente offerte al Signore in olocausto di soavità».

I primi cristiani osservavano il digiuno durante il Triduo Pasquale; nel IV secolo si estese fino a quaranta giorni prima della Pasqua, la Quaresima appunto. Solo la domenica s’interrompeva il digiuno. Nei giorni di digiuno si posticipava al tramonto del sole l’unico pasto consentito.

La Regola di san Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima, ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona. Siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, gli Abati permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta.

Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura serale chiamata Conferenza, in latino Collatio, che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione. Nel IX secolo tale facoltà si estese al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici in questo sacro tempo.

Le norme attuali stabiliscono che il digiuno sia praticato il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo. Esso obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera. La legge dell’astinenza – tutti i venerdì di Quaresima  – richiede la privazione delle carni, come pure dei cibi e delle bevande considerati particolarmente ricercati e costosi.

*Tratto da “Maria di Fatima”, mensile della Famiglia del Cuore Immacolato di Maria