Mons. Oliveri: Pasqua è il passaggio di Dio nella vita dell'uomo

Vogliamo sottolineare la celebrazione dell’Ottava di Pasqua con questo breve augurio di S. E. Mons. Mario Oliveri, Vescovo di Albenga-Imperia, che augura ai suoi condiocesani e a tutti i fedeli cristiani  la grazia di lasciarsi permerare dalla presenza di Dio nella propria vita.

Nella celebrazione della Pasqua, la Chiesa rende presente ed efficace per il mondo intero il Mistero Pasquale di Cristo , il Mistero del Passaggio di Dio dentro la vita dell’uomo per redimerla, liberarla dal male e quindi dal peccato, renderla giusta e santa, cosicché in essa si realizzi la  partecipazione alla vita divina. Questa mirabile operazione divina, che opera una mirabile trasformazione nell’uomo, avviene per mezzo della Croce di Cristo, il Figlio Unigenito del Padre fatto Uomo, per mezzo del Mistero della sua Morte e della sua Resurrezione, per mezzo del mirabile passaggio che, nella Natura umana di Cristo, è avvenuto dalla Morte alla Vita.

Ecco: l’ingresso di Dio nell’uomo, affinché l’uomo sia del tutto posseduto da Dio, non può avverarsi se non in Cristo e per mezzo del Cristo, se non nel Mistero della sua Morte e della sua Resurrezione; la Pasqua di Cristo diventa la nostra Pasqua, per mezzo della fede in quel Mistero e per mezzo deiSacramenti che fanno entrare in noi la forza redimente e santificante di quel Mistero.

Si può così comprendere facilmente perché la Chiesa considera la Pasqua, che Essa celebra con la massima solennità, come il Giorno di Dio, come il Giorno in cui, e per mezzo del quale, tutto si rinnova, tutta la vita spirituale dell’uomo, ferita e fiaccata e sconvolta dal peccato, rifiorisce, riprende e si rinvigorisce. Tutto ciò che il peccato ha fatto decadere e corrompere rinasce e risorge, in virtù della gloriosa Resurrezione del Verbo Incarnato, che ha sofferto la Passione, il supplizio della Croce, il tormento della Morte.

Già ho detto che nella Grazia di quel Mistero si entra per mezzo della fede e dei Sacramenti, ma si entra dunque anche e necessariamente per mezzo della penitenza, del pentimento dei peccati e del vero distacco del cuore e della volontà dal peccato: senza questo non v’è redenzione, non v’è rinnovamento, non v’è rigenerazione e nascita a vita divina. Rinnovamento, rigenerazione e rinascita avvengono innanzitutto per mezzo del perdono di Dio, che è la vera liberazione dal peccato.

La grazia quaresimale è già stata grazia pasquale. Chi non avesse saputo ben ricevere e vivere il tempo di grazia che è stata la Quaresima, difficilmente potrebbe avvalersi e gioire della grazia della Pasqua, e trovarsi ben irrobustito in tutta la sua vita cristiana.

Il buon cristiano sempre vive in spirito di penitenza, sempre vive secondo il dono ricevuto della figliolanza divina, sempre vive nella carità e secondo la carità, continuamente rivolto a Dio anche quando si fa vero fratello di chi gli è vicino, di chi egli incontra, di chi egli ama con cuore sincero; anche quando opera per la propria ed altrui vita nel mondo.

Il bisogno continuo di perdono, di rinnovamento e di rinascita, dice al cristiano la necessità di mantenere ferma la speranza nella vita di cui si potrà godere perfettamente soltanto una volta terminato il cammino od il pellegrinaggio nel tempo e nello spazio, una volta che si sarà ammessi all’eterna vita, alla perfetta partecipazione della vita stessa di Dio.

Nella Pasqua, il cristiano mentrenecessariamente ravviva la propria fede, cresce anche nella speranza che dà gioia, che fa superare ogni tristezza, ogni difficoltà ed ogni ostacolo e prova, che la vita quaggiù sempre comporta.

A tutti i cristiani, anche a quelli tiepidi, affievoliti, diventati quasi indifferenti alle cose dello Spirito, il mio augurio di Vescovo è quello di non restare lontani dalla cosi grande opportunità che la Pasqua offre di rivivere, di rialzarsi, di riprendere respiro e speranza, di ritornare a Dio con tutto il cuore, di operare nella giustizia e nella santità.

+ Mario Oliveri, Vescovo

Dio non abbandona mai l'umanità

La Resurrezione commentata dal fondatore dell’Opus Dei

di San Josemaría Escrivá

La sera del sabato Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo, e Salòme comprarono gli aromi per imbalsamare il corpo morto di Gesù.

Il giorno dopo, di buon mattino, arrivano al sepolcro quando il sole è già sorto (Mc 16, 1-2).
Entrando, rimangono costernate perché non trovano il corpo del Signore. – Un giovane, in bianche vesti, dice loro: Non temete, so che cercate Gesù Nazareno: non est hic, surrexit enim sicut dixit, non è qui, perché è risorto come aveva predetto (Mt 28, 5).

La Vita ha sconfitto la morte.

È risorto! – Gesù è risorto: non è più nel sepolcro. – La Vita ha sconfitto la morte.
È apparso alla sua Santissima Madre. – E’ apparso a Maria di Magdala, pazza d’amore. – E a Pietro e agli altri apostoli. – E a te e a me, che siamo suoi discepoli e più pazzi della Maddalena: quante cose gli abbiamo detto!
Non vogliamo mai più morire a causa del peccato. Che la nostra risurrezione spirituale sia eterna.
– E prima di terminare la decina, tu hai baciato e piaghe dei suoi piedi …, e io più audace – perché più bambino – ho posato le mie labbra sul suo costato aperto.
Santo Rosario, 11

Cristo vive. Questa è la grande verità che riempie di contenuto la nostra fede. Gesù, che morì sulla Croce, è risorto, ha trionfato sulla morte, sul potere delle tenebre, sul dolore, sull’angoscia. Non abbiate paura: con questa esortazione un angelo salutò le donne che andavano al sepolcro. Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui (Mc 16, 6).
È Gesù che passa, 102

Gesù Cristo vince sempre

Il giorno del trionfo del Signore, della sua Risurrezione, è definitivo. Dove sono i soldati che le autorità avevano messo di guardia? Dove sono i sigilli che erano stati posti sulla pietra del sepolcro? Dove sono coloro che condannarono il Maestro? Dove sono quelli che crocifissero Gesù?… Di fronte alla sua vittoria, avviene la grande fuga di quei poveri miserabili. Riémpiti di speranza: Gesù Cristo vince sempre.
Forgia, 660 

Dio non abbandona mai i suoi

Gesù è l’Emmanuele, Dio con noi. La sua Risurrezione ci rivela che Dio non abbandona mai i suoi. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (Is XLIX, 14-15). Questa era la promessa e l’ha mantenuta. Dio si delizia ancora di stare tra degli uomini (cfr. Proverbi 8, 31).
È Gesù che passa, 102

Siamo amati da Dio

Il lavoro non è facile, ma abbiamo una guida chiara, una realtà da cui non possiamo né dobbiamo prescindere: siamo amati da Dio. Lasceremo dunque che lo Spirito Santo agisca in noi e ci purifichi, e così abbracceremo il Figlio di Dio crocifisso e risusciteremo con Lui, dato che la gioia della Risurrezione ha le sue radici nella Croce.È Gesù che passa, 66

Tempo di Passione: dalla velatura delle immagini alla svelata pasquale. Teologia e tradizione di un rito antico

Pubblichiamo un accurato studio sulle origini e sul significato teologico e spirituale di un rito antichissimo, che caratterizza le ultime due settimane di Quaresima, dette “Tempo di Passione”.

di Alessandro Scaccianoce

Con la quinta domenica di Quaresima si entra nel “Tempo di Passione“, caratterizzato da una marcata attenzione al mistero della Passione e Morte del Signore Gesù.

In origine limitata alla sola Settimana Santa, che si apriva con la Domenica delle Palme, detta appunto “De Passione Domini”, nel tempo la contemplazione della Passione del Signore, culmine della Redenzione e fonte di vitalità spirituale, venne anticipata e celebrata anche nella settimana precedente.

Questo tempo speciale, che si inserisce nel già propizio tempo di Quaresima, viene sottolineato con alcune specifiche regole cultuali. Tra queste la più caratteristica è la “Velatio”, ovvero la velatura delle croci e delle immagini della chiesa esposte alla venerazione dei fedeli. A norma del Messale tridentino, nel sabato che precede la I domenica di Passione, (quindi il sabato della IV settimana di Quaresima), «finita la Messa e prima dei Vespri si coprono le croci e le immagini della chiesa con veli violacei; le croci restano coperte fino al termine dell’adorazione della croce da parte del celebrante il Venerdì Santo, le immagini fino all’intonazione del Gloria nella Messa della Vigilia Pasquale». In tale periodo solo le immagini della Via Crucis restano senza velo. Il giovedì santo la croce dell’altare maggiore, per il tempo della Messa, si copre con un velo bianco.

Si tratta di un rito molto antico risalente addirittura al sec. IX, forse un retaggio della separazione dei penitenti pubblici nella chiesa. I penitenti pubblici erano i fedeli che si erano resi colpevoli di gravi peccati dopo il Battesimo. Questi, dopo un periodo di penitenza, nel periodo precedente la Pasqua, venivano riammessi alla comunione la mattina del Giovedì Santo, con un apposito rito. Nel tempo, poi, tutti i cristiani furono assimilati ai penitenti pubblici, nella consapevolezza della necessità per tutti di un tempo di penitenza in preparazione alla Pasqua del Signore. Così cominciò a diffondersi l’abitudine di nascondere ai fedeli l’altare maggiore, per mostrare visivamente gli effetti del peccato, che rompe la comunione con il Signore e ne oscura la visione.




Da sempre, infatti, la liturgia si esprime in una ricchezza di segni che rendono manifesta la realtà dei Misteri celebrati sull’altare. Salvo qualche tentazione iconoclasta, che periodicamente riemerge nella storia della Chiesa.

Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, motiva questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti […] per introdurre i fedeli con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

E così, come per la liturgia è importante la presenza dell’immagine, altrettanto rilevante è la sua assenza. Il nascondimento dei Santi e di Cristo stesso aiuta ad alimentare l’attesa del giorno di Pasqua, giorno in cui quei volti si offrono nuovamente al nostro sguardo.

Al di là della sua origine, il rito della “Velatio” conserva ancora oggi un profondo significato e una intensa capacità catechetica ed emotiva: nascondere alla vista le immagini dei Santi aiuta a concentrarsi su Colui che è l’origine di ogni santità. Egli è colui che rende accessibile il cielo agli uomini. Senza di lui la nostra vita non avrebbe più una dimensione trascendente, sarebbe un vagare nelle tenebre del peccato e “nell’ombra della morte”. La velatura delle croci sottolinea anche fisicamente la privazione di Cristo, il “venir meno dello sposo”: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi” dice il profeta Isaia (53,8).

Quei veli che nascondono il Cristo alla nostra vista stanno a ricordare che quell’evento riaccade ancora oggi. Che anche noi siamo “tra gli uccisori di Cristo”, tra quelli che lo volevano gettare dal precipizio della città di Nazaret, o lapidarlo nel tempio di Gerusalemme. Si tratta, dunque, di un segno efficace che aiuta a meditare, riflettere e pregare sulla tragicità della condizione umana senza la presenza del Dio redentore.

Si capisce, allora, che nella I Domenica di Passione – secondo il calendario tridentino – venga proclamato il Vangelo di Giovanni che fa esplicito riferimento al nascondimento di Gesù di fronte ai suoi nemici: “Iesus autem abscondit se et exivit de templo” (Gesù si nascose e uscì dal tempio, Gv 8,59). Sembrerebbe che, in passato, la velatura del Crocifisso avvenisse proprio mentre il Diacono cantava questo versetto.

Nella sua ricchezza di significati il segno della “Velatio” rimanda anche alla velatura della Divinità di Nostro Signore, che possiamo illustrare con queste splendide parole di Sant’Agostino sulla passione del Signore: “Dio era nascosto; si vedeva la debolezza, la maestà era nascosta; si vedeva la carne, il Verbo era nascosto. Pativa la carne; dov’era il Verbo, quando la carne pativa? Eppure neanche il Verbo taceva, perché c’insegnava la pazienza”. La gloria di Cristo, dunque, è eclissata sotto le ignominie della Passione.

Lo scenario delle nostre chiese, con immagini, dipinti e simulacri velati, ci ripropone l’esperienza del “Deus absconditus” (Dio nascosto), su cui molta teologia ha scritto. In tale contesto, Dio va cercato nel proprio cuore, è lì che deve risorgere. Risulta particolarmente efficace al riguardo questa citazione di B. Pascal: “Gli uomini sono nelle tenebre e nella lontananza da Dio, che è nascosto alla loro coscienza. Egli non sarà colto che da quelli che lo cercano anzitutto nel cuore”. Questi sentimenti sono particolarmente accentuati alla sera del Giovedì Santo, in cui si fa memoria del “rapimento di Gesù” da parte delle guardie del tempio. Da quel momento egli è in balìa della loro ferocia. “E’ l’impero delle tenebre” (Lc 22,4), come afferma Gesù stesso.

Questa atmosfera in antico culminava nel caratteristico “Ufficio delle tenebre”, ovvero nella celebrazione del mattutino e delle lodi del Giovedì, del Venerdì e del Sabato Santo.
Ad ogni salmo veniva spento uno dei 15 ceri posti su un apposito candeliere (la “Saetta o Tenebrarium”) a forma di triangolo. Tutta la chiesa veniva così gradualmente immersa nel buio. Rimaneva accesa la candela più alta  (simbolo della fede di Maria, che è rimasta viva anche nel silenzio della morte di Cristo).

Dopo la riforma liturgica la pratica della “Velatio”, è stata pressoché universalmente abbandonata, sulla scorta di un malinteso “spirito conciliare”. In realtà, questo rito, di cui abbiamo cercato di spiegare la profondità e la ricchezza, conserva tutta la sua attualità. Si rese necessario, pertanto,  un intervento chiarificatore della Congregazione per il Culto Divino circa l’opportunità di conservare o recuperare questa usanza, come indicato nella lettera circolare Paschalis sollemnitatis del 16 gennaio 1988:
«L’uso di coprire le croci e le immagini nella chiesa dalla domenica V di Quaresima può essere utilmente conservato secondo il giudizio della conferenza episcopale. Le croci rimangono coperte fino al termine della celebrazione della passione del Signore il Venerdì Santo; le immagini fino all’inizio della Veglia Pasquale» ( n. 26). La Conferenza Episcopale Italiana, dal canto suo, ha sempre fatto rinvio agli usi locali.


La stessa circolare specifica nel capitolo IV a proposito della Messa Vespertina del Giovedì Santo nella Cena del Signore: “Terminata la Messa [in Cena Domini] viene spogliato l’Altare della Celebrazione. E’ bene coprire le Croci della Chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della Domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle Immagini dei Santi”.

Nel rito ambrosiano tale pratica è estesa addirittura a tutta la Quaresima, in cui la forte meditazione sulla passione del Signore è sottolineata dai venerdì a-liturgici, in cui cioè non si celebra l’Eucaristia, e dall’uso del colore nero per tutte le ferie del tempo. A norma del Sinodo XLI n° 513 “nel pomeriggio del sabato precedente la prima Domenica di Quaresima nelle Chiese ed Oratori si devono coprire tutte le immagini sacre, siano dipinte o siano scolpite, che sono poste in venerazione, non quelle di ornamento”.

Significativa, poi, è la svelatura delle immagini, che – come abbiamo visto – avviene in due momenti diversi:  il Venerdì Santo viene scoperto il crocifisso, mentre tutte le altre immagini al gloria del Sabato Santo. Dopo il tempo in cui Cristo è stato sottratto ai nostri sguardi, ci viene restituito innanzitutto nell’immagine del “trafitto”. E’ questa la prima immagine che ci consegna la passione del Signore: un cuore aperto, donato fino all’ultima goccia di sangue e acqua. “Velum templi scissum est”, dicono i Vangeli. Quel velo che separava il Sancta Sanctorum (ovvero la parte più sacra del tempio di Gerusalemme) dal resto del Tempio, in cui  poteva accedere (una volta all’anno) il Sommo Sacerdote, viene lacerato alla morte di Cristo. In quel momento si “ri-vela” universalmente l’intima natura di Dio stesso nel cuore trafitto di Cristo. Il significato di questo velo è, come è stato ben scritto da autorevoli commentatori ed esegeti, che gli uomini sono separati da Dio a causa del peccato. La lacerazione del velo del Tempio, pertanto, sta a significare l’unione della terra con il cielo, rendendone l’accesso aperto ad ogni uomo. Ed ecco che la sapienza della Chiesa offre tutto questo alla nostra contemplazione attraverso il rito dell’adorazione della Croce che – secondo la forma più antica – viene svelata solennemente di fronte ai fedeli. In questo giorno si rendono evidenti le parole di Gesù: Questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29).




 

A questa prima “ri-velazione” del Venerdì Santo, fa seguito, nella Veglia Pasquale, la definitiva liberazione delle immagini di tutti i Santi. Il Cristo risorto, infatti, associa alla sua gloria quanti lo hanno seguito da vicino, testimoni della Sua redenzione. Penso all’efficace iconografia bizantina che raffigura la risurrezione di Cristo nell’atto di trarre dagli inferi Adamo ed Eva. Si capisce, allora, che le immagini dei Santi vengano svelate dopo che è stato dato l’annuncio della risurrezione di Cristo, al canto del “Gloria in esxcelsis”: “In lui risorto, tutta la vita risorge”, canta il Prefazio di Pasqua.

In Sicilia, tale prassi è molto ben documentata. Alla velatura delle immagini, infatti, la I Domenica di Passione, corrisponde lo svelamento dell’altare maggiore che ha luogo alla vigilia di Pasqua. Al canto del gloria, mentre si sciolgono le campane, il lungo telone scuro (vi sono esemplari alti  anche più di dieci metri) che ha nascosto il presbiterio nelle due settimane precedenti, viene lasciato precipitare giù, restituendo ai fedeli l’altare maggiore con il simulacro del Cristo risorto in bella vista: “a calata ’a tila” (calata della tela).  Tale rito si è conservato anche quando il rito liturgico è stato spostato dal mezzogiorno alla notte del Sabato Santo. A questo momento, detto anche “a risuscita”, si legavano poi varie tradizioni popolari e contadine: come quella di trarre auspici dal numero di candele che rimanevano accese nonostante il forte spostamento d’aria generato dal repentino precipitare giù del telo. Questa tradizione si conserva tutt’oggi in molti centri della Sicilia (da Adrano e Belpasso a Nicolosi, da  San Giovanni la Punta a Catenanuova, da Comiso a  Petralia Sottana, fino alla chiesa di San Domenico a Palermo).

Anche a Biancavilla la “Velatio” è attestata, come dimostrano, se non altro, molti teli violacei conservati nei più remoti angoli delle sacrestie delle chiese più antiche.

Nella Chiesa Madre, inoltre, vi era un grandissimo telone, di circa 10 metri di altezza per 6 metri di larghezza, riproducente la scena della deposizione del Signore dalla croce, che ricopriva tutta l’area presbiterale durante il tempo di Passsione. Questa “tela”, probabilmente settecentesca (come le tele superstiti di alcuni paesi vicini),  nel tempo andò deteriorandosi, fino ad essere ripartita intorno agli anni 60 in piccole parti e divisa tra alcuni fedeli che ne fecero gli usi più vari (qualcuno anche per raccogliere le olive!). Circa dieci anni fa, per iniziativa di alcuni giovani, tale usanza è stata ripristinata, con una nuova tela realizzata ex novo dal M° Giuseppe Santangelo, che ne ha fatto anche un bellissimo esemplare per la chiesa dell’Annunziata. Tuttavia, la tela non viene utilizzata tutti gli anni e l’incontro degli occhi con il Signore Risorto è affidato ad altre soluzioni.




Il telo che nella notte del Sabato Santo precipita rovinosamente ha un definitivo significato escatologico: esso sta ad indicare che al nostro orizzonte è restituita la visione dell’al di là. Possiamo guardare con fiducia oltre la morte, poiché il Vivente sta lì, “primogenito di molti fratelli”, ad assicurarci che il nostro destino è il cielo, ovvero la profondità delle cose. Con la sua risurrezione Cristo ha guarito la nostra “cataratta” spirituale. E il segno della tela lo esprime in modo eloquente.

Alla fine della Veglia Pasquale, quei teli raccattati alla svelta, accantonati in un angolo, ci ricordano la realtà “fisica” della risurrezione. Anche per noi si rende possibile l’esperienza dell’Apostolo Giovanni che “vide i teli per terra” ed entrato, “vide e credette” (Gv 20,13).

Un Papà di nome Giuseppe…

di Alessandro Scaccianoce
 
Alla festa di San Giuseppe è opportunamente legata la festa dei Papà. San Giuseppe, infatti, è un vero modello di Papà. Non si tratta di fare vuota retorica o facile sentimentalismo. In San Giuseppe abbiamo la possibilità di guardare ad una figura affascinante, luminosa, forte e mansueta al tempo stesso. Un uomo, un lavoratore, un padre.
 
Si dice che oggi sia facile essere genitori. Piuttosto, se ci si rifiuta di essere genitori è perché si ha paura di diventari padri. Assai più difficile, infatti, è diventare Papà. San Giuseppe non fu genitore, ma può essere di sicuro considerato un Padre esemplare. Per tutti i tempi.
 
La psicologia insegna che al Padre spetta il compito di introdurre i figli alla realtà, mentre la mamma protegge e rassicura. Educare, quindi, non significa imporre le proprie idee, o la propria personalità, nè tirar su dei propri “cloni”. E’ accettare la personalità del figlio e rispettarne la diversità, senza abdicare alle proprie convinzioni e ai propri valori. Accettare un figlio come Gesù non deve essere stato semplice per San Giuseppe. Quanto diverso deve essere stato Gesù da Giuseppe! Dovette essere ben chiaro al Santo falegname che questo Figlio era davvero fuori dal comune. Eppure Dio ha scelto di incarnarsi in una famiglia comune e di avere un padre e una madre a cui “stava sottomesso”. Pertanto, deve esserci qualcosa di sublime e di divino in questa via della famiglia…
 
San Giuseppe esercita la sua paternità in modo esemplare, sacrificandosi per l’incolumità del figlio (la fuga in Egitto); ne rispetta la vocazione, anche quando non la comprende (il ritrovamento al Tempio di Gesù dodicenne tra i dottori). Pensiamo a quale intimità deve esserci stata tra Gesù e Giuseppe nella bottega di famiglia. Diversità, ma anche complementarietà e ricchezza. Gesù non può non aver pensato a lui quando raccontava la parabola del Padre misercordioso. Quel padre che lascia libero, anche di sbagliare, ma aspetta il ritorno del figlio.
 
Quanto lontano deve esser stato San Giuseppe da certi padri assenti e distanti dalla vita interiore dei figli, troppo concentrati sul lavoro o sulla carriera per badare alle cose dei loro piccoli, per prenderli sul serio!
 
Giuseppe è la figura, anzi il modello, del padre esemplare, non di quello che usa il proprio potere in maniera autoritaria, ma è colui che suscita la libertà del figlio, rispettandone la sua identità e diversità: una vera e propria icona di affidabilità e sicurezza per qualsiasi figlio e moglie. Mentre Maria custodiva  Gesù, con le sue premure di madre, Giuseppe lo preparava ad affrontare il mondo, trasmettendogli il suo bagaglio di esperienza tecnica ed umana. Osservando il “giusto” Giuseppe accanto alla Vergine Madre, Gesù deve aver fatto la prima esperienza delle beatitudini.
 
In una società che non tollera padri, limiti e regole, celebrare la festa di san Giuseppe è un segno di grande speranza. Quando per allevare i figli si crede di poter fare a meno di una famiglia “tradizionale”, quando vanno bene anche “due mamme o due papà”, quando tra mamma e papà non c’è alcuna differenza, guardare a San Giuseppe può essere un’occasione per ritrovare quella figura di padre amorevole e forte di cui tutti abbiamo nostalgia. Perché, in fondo, è la nostalgia di Dio.

ITE AD JOSEPH

Oggi è la solennità di San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale. Il Santo Patriarca, che preservò la vita del fanciullo Gesù, continua ad assistere i suoi devoti, orientando con il suo silenzio la nostra vita verso Gesù e Maria. Le seguenti riflessioni di San Josemarìa Escrivà possono aiutare a familiarizzare con la grande figura del Santo.

dalle meditazioni di San Josemarìa Escrivà

San Giuseppe è realmente un padre e signore che protegge e accompagna nel cammino terreno coloro che lo venerano, come protesse e accompagnò Gesù che cresceva e diveniva adulto. Dall’intimità con lui si scopre inoltre che il santo Patriarca è maestro di vita interiore: ci insegna infatti a conoscere Gesù, a convivere con Lui, a sentirci parte della famiglia di Dio. San Giuseppe ci insegna tutto ciò apparendoci così come fu: un uomo comune, un padre di famiglia, un lavoratore che si guadagna la vita con lo sforzo delle sue mani.
(E’ Gesù che passa, 39)

Maestro di vita interiore, lavoratore impegnato nel dovere quotidiano, servitore fedele di Dio in continuo rapporto con Gesù: questo è Giuseppe. Andate da Giuseppe. Da Giuseppe il cristiano impara che cosa significa essere di Dio ed essere pienamente inserito tra gli uomini, santificando il mondo. Frequentate Giuseppe e incontrerete Gesù. Frequentate Giuseppe e incontrerete Maria, che riempì sempre di pace la bottega di Nazaret.
(E’ Gesù che passa, 56)

Fede, amore, speranza: sono i cardini della vita di Giuseppe, come lo sono di ogni vita cristiana. La dedizione di Giuseppe risulta da questo intrecciarsi di amore fedele, di fede amorosa, di speranza fiduciosa. La sua festa è dunque un’ottima occasione per rinnovare il nostro impegno di fedeltà alla vocazione di cristiani, che il Signore ha concesso a ognuno di noi.
( E’ Gesù che passa, 43)

Guarda quanti motivi per venerare San Giuseppe e per imparare dalla sua vita: fu un uomo forte nella fede…; mandò avanti la sua famiglia – Gesù e Maria – con il suo lavoro gagliardo…; custodì la purezza della Vergine, che era sua Sposa…; e rispettò – amò! – la libertà di Dio, che non solo scelse la Vergine come Madre, ma scelse anche lui come Sposo della Madonna. 
(Forgia, 552) 

Ama molto San Giuseppe, amalo con tutta l’anima, perché è la persona, assieme a Gesù, che ha amato di più la Madonna e che più è stato in rapporto con Dio: colui che più lo ha amato, dopo nostra Madre. 
– Merita il tuo affetto, e ti conviene frequentarlo, perché è Maestro di vita interiore, ed è molto potente presso il Signore e presso la Madre di Dio
(Forgia, 554)

San Giuseppe, Padre di Cristo, è anche Padre tuo e tuo Signore. Ricorri a lui.
(Cammino, 559)

San Giuseppe, Padre e Signore nostro, castissimo, limpidissimo, che hai meritato di portare in braccio Gesù Bambino, e di lavarlo e abbracciarlo: insegnaci a trattare il nostro Dio, a essere puri, degni di essere altri Cristi. 
E aiutaci a percorrere e a indicare, come Cristo, i cammini divini – nascosti e luminosi -, dicendo agli uomini che, sulla terra, possono avere costantemente un’efficacia spirituale straordinaria. 
(Forgia, 553)

Sulle sue spalle porta il peccato del mondo

Meditazione sulla passione salvifica di Nostro Signore, che muove l’uomo a corrispondere a così grande amore, del grande dottore della Chiesa, Sant’Alfonso: Cristo regna sul trono della croce, dal quale libera l’uomo da ogni peso di colpa e di peccato. Le illustrazioni sono relative alla processione dei Misteri che si svolge a Biancavilla (CT) la sera del Venerdì Santo.   

di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

I grandi della terra si gloriano di possedere regni e ricchezze. Gesù Cristo trova la pienezza della felicità nel regnare sui nostri cuori; è quella la signoria che desidera e ha deciso di conquistare con la morte in croce: «Sulle sue spalle è il segno della sovranità» (Is 9,5). Con queste parole, molti interpreti … intendono la croce che il nostro divino Redentore ha portato sulle spalle. «Il Re del cielo, fa notare Cornelio a Lapido, è un maestro ben diverso dal demonio: questi carica di pesanti fardelli le spalle dei suoi schiavi. Gesù, al contrario, prende su di sé tutto il peso del suo regno; abbraccia la croce e ci vuole morire per regnare sui nostri cuori». E Tertulliano dice che, mentre i re della terra «portano lo scettro in mano e la corona sulla testa come emblemi della loro potenza, Gesù ha portato la croce sulle spalle. E la croce è stata il trono su cui è salito per fondare il suo regno d’amore»…

Affrettiamoci dunque a consacrare tutto l’amore del nostro cuore a questo Dio che, per conquistarlo, ha sacrificato il suo sangue, la sua vita, tutto se stesso. «Se tu conoscessi il dono di Dio – diceva Gesù alla Samaritana – e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’» (Gv 4,10). Cioè: se tu sapessi la grandezza della grazia che ricevi da Dio… Oh, se l’anima comprendesse che grazia straordinaria Dio le dà quando richiede il suo amore con queste parole: «Amerai il Signore Dio tuo»! Un suddito che sentisse il suo signore dirgli: «Amami», non sarebbe forse attratto da questo invito? E Dio non sarebbe capace di conquistare il nostro cuore, quando ce lo chiede con così grande bontà: «Figlio mio, dammi il tuo cuore»? (Pr 23,26) Ma quel cuore, Dio non lo vuole a metà; lo vuole per intero, senza riserve; è il suo comando: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore».