Per tutte quelle donne che, come Maria…

 Un pensiero e una preghiera per tutte quelle donne che accolgono la vita nel loro grembo, contro ogni tentazione contraria.

Un pensiero e una preghiera per quelle donne che si donano ogni giorno per curare e assistere un figlio, un marito, un fratello gravemente ammalato.

Un pensiero e una preghiera per tutte quelle donne che costruiscono nel silenzio l’armonia della famiglia e nel lavoro sono esempio di dedizione fedele e gioiosa alla volontà del Signore.

Un pensiero e una preghiera per quelle donne che soffrono per i maltrattamenti o le ingiustizie.

Un pensiero e una preghiera per quelle bambine che sono mutilate, violentate, uccise.

Un pensiero e una preghiera per tutte quelle ragazze che sono costrette a vendere il loro corpo.

Un pensiero e una preghiera per le donne di paesi dove, in nome di leggi e consuetudini, sono private della loro dignità e libertà.

Un pensiero e una preghiera per quelle donne che dopo aver speso una vita come moglie e madri a servizio di tanti sono sole e ammalate.

Un pensiero, una preghiera e un grazie sincero per tutte quelle donne che sull’esempio di Maria hanno detto il loro “Eccomi” a Gesù.

Volevano fare di Lucio Dalla una bandiera gay

Sterili polemiche  all’indomani dei funerali di Lucio Dalla. Lobbies gay e ideologi laicisti non perdono l’occasione per lanciare le loro accuse alla Chiesa. E’ possibile, ci chiediamo noi, apprezzare una persona senza identificarla per le tendenze sessuali? L’omosessualità, laddove sussista, si può vivere anche cristianamente. E non è ipocrisia.
 
di Alessandro Scaccianoce
 
Volevano fare di Lucio Dalla la loro bandiera, l’ennesimo simbolo dell’orgoglio gay. Ma non ci sono mai riusciti, perchè il cantante era «una persona di grande fede» che non ha «mai voluto conclamare la propria omosessualità». A fare chiarezza, autorevolmente, è il confessore del grande cantautore bolognese, che respinge le accuse di ipocrisia lanciate contro la Chiesa cattolica da una giornalista come Lucia Annunziata, che ha ritenuto con queste parole di dover difendere la “cultura dell’orgoglio gay”:
“I funerali di Lucio Dalla sono uno degli esempi più forti di quello che significa essere gay in Italia: vai in chiesa, ti concedono i funerali e ti seppelliscono con il rito cattolico, basta che non dici di essere gay. È il simbolo di quello che siamo, c’è il permissivismo purché ci si volti dall’altra parte”.
Queste posizioni, sono state sponsorizzate, guarda caso, dalle colonne del quotidiano “La Repubblica”. Il commento migliore è quello di padre Boschi: «Questi soloni che imperversano non sanno niente della Chiesa, che condanna il peccato, ma non il peccatore, soprattutto se questi fa un certo cammino». Si tratta di attacchi «micidiali sul piano umano» ha aggiunto il padre domenicano. «Sono andato tante volte a casa di Lucio – dichiara –  c’era anche Marco Alemanno e non ho mai visto nulla». Sbaglia, secondo il sacerdote, chi ha malinteso la sua mano verso il giovane. «Era un povero ragazzo che soffriva – sottolinea – si dà quello che si ha e dobbiamo dare il bene. Ma se dentro le persone c’è la malizia, uno la vede ovunque». Taglia corto anche monsignor Giovanni Silvagni, Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Bologna: «Non è stata la celebrazione di un funerale omosessuale, ma il funerale di un uomo». Tali polemiche, secondo il Vicario vogliono soltanto «spostare il tema su un aspetto secondario, una strumentalizzazione tardiva che si commenta da sola».
E che Dalla non avesse alcuna intenzione di dichiararsi gay lo conferma anche un’intervista del 1979 da lui rilasciata alla rivista «Lambda», che è possibile reperire anche in rete. Dalla si rifiutò di dirsi gay e di fare dell’identità sessuale una questione pubblica: «Non mi interessa parlartene – dice – perché dovremmo stare sulla questione per giorni interi. E poi credo che non ve ne sarebbe bisogno, nel caso fosse vero. Io sostengo che ognuno deve comportarsi correttamente secondo la sua organizzazione mentale, la sua organizzazione sociale, ma fare dichiarazioni di voto mi sembra ridicolo. Non appartengo a nessuna sfera sessuale».«Sono un uomo isolato – aggiunge – ecco perché mi rifiuto di collocarmi nel Pci, col quale non ho alcuna “area culturale” in comune. Sono un uomo abbastanza appartato anche a livello di sentimenti. Sono solo perché lo voglio essere, organizzo il mio mondo forse malinconicamente ma con coraggio, mi sento molto vicino al mondo del lavoro».Infine, il cantautore chiarisce una volta per tutte: «Non mi sento omosessuale, ma veramente, spero che lo capisca. La mia cultura non è una cultura omosessuale, il mio modo di organizzare il lavoro non è omosessuale, ho amici quasi tutti eterosessuali; ho anche amici omosessuali che rispetto e ai quali voglio molto bene. Sono un uomo molto confuso, in tutto, ma credo che gli uomini abbiano il diritto a essere confusi, perché sono sgradevoli quelli che si ritengono conclusi».

Anche per questo ieri padre Boschi ha aggiunto: «Ho avuto una sensazione molto sgradevole, di mancanza di civiltà nel leggere le polemiche sui giornali. Quelli che criticano sono sciacalli, iene. Sputano sentenze su cose più grandi di loro».

Si parla tanto di libertà e di rispetto delle scelte individuali di ciascuno. Ma questo, evidentemente, sembra vero solo in una direzione. Chi sceglie infatti di vivere la propria esistenza senza aderire ai dogmi della cultura imperante viene automaticamente tacciato di ipocrisia. E’ possibile non parlare in pubblico delle proprie tendenze sessuali?
Sono ben presenti alla nostra memoria le polemiche di alcuni giornalisti moralisti-bacchettoni quando la Chiesa, a loro dire, ha negato i funerali (caso Welby). Stavolta qualcuno ha voluto scandalizzarsi perchè la Chiesa ha concesso i funerali.
Ricordiamo in proposito, richiamando le parole di Cantuale Antonianum che “la Chiesa mai e poi mai condannerà le inclinazioni o le tendenze di chichessia. Sono solo le azioni ad essere giustamente definite un peccato. Sia omo che etero, ricordiamolo bene. E nessuno fa un processo alle intenzioni o ai sospetti.
Dove non solo non c’è certezza dei fatti, ma c’è pure il segno di una tenace volontà di adempiere ai precetti di Cristo e della Chiesa, con una vita più coerente possibile con il proprio credo, e pur con tutte le difficoltà poste dai limiti umani, perché mai, mi si spieghi, si dovrebbe negare il funerale cristiano, che è – tra l’altro – una invocazione per il perdono dei peccati che Dio conosce (e noi no)?”. Per il funerale in chiesa, infatti, a norma del Diritto canonico, viene accolto ogni fedele, in tal modo accompagnato con la preghiera davanti al giudizio di Dio, che abbia riconosciuto in vita di essere un peccatore bisognoso della misericordia di Dio. Non c’è quindi nessuna ipocrisia, solo criteri chiari che sanno distinguere il peccato dal peccatore.
Il fatto che ci si dichiari credenti  – sono nozioni basi, ma giova ribadirle – non vuol dire essere senza peccato, giusti o irreprensibili. Il credente è chi ha coscienza di essere creatura limitata e finita ma amata dal Padre al di là di ogni debolezza umana. Forse a qualcuno può dar fastidio chiamare certi atti come peccato. Specialmente se questo peccato viene sbandierato “orgogliosamente” come condizione di libertà e di emancipazione.  Ma è la realtà che ci impone uno sguardo obiettivo. Altra cosa è invece ciò che si agita nel cuore dell’uomo e il modo in cui ciascuno vive la prospria esistenza. Così commenta oggi La Bussola Qotidiana: “Lucio Dalla non aveva mai voluto parlare della sua vita privata, e di quello che aveva nel cuore a noi non è dato né sapere né giudicare.  Né ci deve interessare”. C’è una sfera che non può entrare nel giudizio di nessun giornalista o attivista gay di turno: è la coscienza, involabile e intangibile, di ogni uomo.
 
 
Di seguito il link al lucido commento di Giuliano Ferrara nella puntata di Radio Londra di ieri sera:

 
 

La Quaresima non passi senza lasciare traccia

Pubblichiamo di seguito brani di meditazione sulla Quaresima e sulla penitenza di San Josemarìa Escrivà, fondatore dell’Opus Dei. Brevi riflessioni capaci di illuminare nel profondo la vita spirituale.

Redazione SME

Quale miglior modo di vivere la Quaresima?
Il rinnovamento della fede, della speranza e della carità è la fonte dello spirito di penitenza, che è desiderio di purificazione. La Quaresima non è solo un’occasione per intensificare le nostre pratiche esteriori di mortificazione: se pensassimo che è solo questo, ci sfuggirebbe il suo significato più profondo per la vita cristiana, perché quegli atti esterni – vi ripeto – sono frutto della fede, della speranza, dell’amore.
E’ Gesù che passa, 57

Un momento unico
Non possiamo considerare la Quaresima come un periodo qualsiasi, una ripetizione ciclica dell’anno liturgico. È un momento unico; è un aiuto divino che bisogna accogliere. Gesù passa accanto a noi e attende da noi – oggi, ora – un rinnovamento profondo.
E’ Gesù che passa, 59

La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi?
E’ Gesù che passa, 58

Amore con amor si paga
L’appello del Buon Pastore giunge sino a noi: “Ego vocavi te nomine tuo”, ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere – amore con amor si paga – dicendo: “Ecce ego, quia vocasti me” (I Reg III, 5), mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l’acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato.
E’ Gesù che passa, 59

Tempo di penitenza, quindi. Ma la penitenza, lo abbiamo già visto, non è un compito negativo. La Quaresima va vissuta in quello spirito di filiazione che Cristo ci ha comunicato e che palpita nella nostra anima. Il Signore ci chiama ad avvicinarci a Lui con il desiderio di essere come Lui: Fatevi imitatori di Dio quali figli suoi carissimi, collaborando umilmente ma con fervore al divino proposito di unire ciò che è diviso, di salvare ciò che è perduto, di ordinare ciò che il peccato dell’uomo ha sconvolto, di ricondurre al suo fine ciò che se ne è allontanato, di ristabilire la divina concordia di tutto il creato.
E’ Gesù che passa, 65

Ti stai risolvendo a formulare propositi sinceri?
Chiedi al Signore che ti aiuti a incomodarti per amor suo; a mettere in tutto, con naturalezza, il profumo della mortificazione che purifica; a spenderti al suo servizio senza spettacolo, silenziosamente, come si consuma la lampada che palpita accanto al Tabernacolo. E se per caso in questo momento non ti riesce di vedere come rispondere concretamente alle divine richieste che bussano al tuo cuore, ascoltami bene.
Amici di Dio, 138

Penitenza è…

Penitenza è osservare esattamente l’orario che ti sei prefisso, anche se il corpo oppone resistenza o la mente chiede di evadere in sogni chimerici. Penitenza è alzarsi all’ora giusta. E anche non rimandare, senza giustificato motivo, quella certa cosa che ti riesce più difficile o più pesante delle altre.

La penitenza è saper compaginare i tuoi doveri verso Dio, verso gli altri e verso te stesso, essendo esigente con te stesso per riuscire a trovare il tempo che occorre per ogni cosa. Sei penitente quando segui amorosamente il tuo piano di orazione, anche se sei stanco, svogliato o freddo.

Penitenza è trattare sempre con la massima carità il prossimo, a cominciare dai tuoi cari. È prendersi cura con la massima delicatezza di coloro che sono sofferenti, malati, afflitti. È rispondere pazientemente alle persone noiose e importune. È interrompere o modificare i nostri programmi quando le circostanze — gli interessi buoni e giusti degli altri, soprattutto — lo richiedono.

La penitenza consiste nel sopportare con buonumore le mille piccole contrarietà della giornata; nel non interrompere la tua occupazione anche se, in qualche momento, viene meno lo slancio con cui l’avevi incominciata; nel mangiare volentieri ciò che viene servito, senza importunare con capricci.

Penitenza, per i genitori e, in genere, per chi ha un compito di direzione o educativo, è correggere quando è necessario, secondo il tipo di errore e le condizioni di chi deve essere aiutato, passando sopra ai soggettivismi sciocchi e sentimentali.

Lo spirito di penitenza induce a non attaccarsi disordinatamente al monumentale abbozzo di progetti futuri, nel quale abbiamo già previsto quali saranno le nostre mosse e le nostre pennellate da maestro. Com’è contento il Signore quando sappiamo rinunciare ai nostri sgorbi e alle nostre macchie pseudomagistrali, e consentiamo a Lui di aggiungere i tratti e i colori che preferisce!
Amici di Dio, 138

Cosa vuol dire convertirsi a Cristo?

 di Padre Pietro Gheddo*

Mancano quaranta giorni alla Pasqua e la Chiesa ci invita alla conversione. Il Vangelo di San Marco, col quale inizia la Quaresima, ci presenta Gesù che, dopo l’arresto di Giovanni il Battista, va nel deserto e vi passa quaranta giorni di preghiera, di tentazioni e di digiuno; poi, percorre i villaggi della Galilea annunziando il suo messaggio: “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1, 12-15).

E’ il messaggio che la Chiesa rilancia nella Quaresima ed è anche l’essenza del cristianesimo: credere in Cristo e nel suo Vangelo e convertire la nostra vita quotidiana alla vita nuova che il Vangelo ci propone.




Ma, in concreto, cosa significa “convertirsi a Cristo?”. Ho fatto questa domanda a un missionario del Pime, padre Giuseppe Fumagalli, che da quarantatre anni vive fra i “felupe” nel nord della Guinea Bissau, una tribù nuova, dove il Vangelo è stato portato negli anni cinquanta dal suo predecessore padre Spartaco Marmugi. Siamo in una situazione missionaria: il primo annunzio del Vangelo ai pagani. La predicazione di padre Fumagalli è come quella di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”.




Padre Zé (Giuseppe) dice: “La conversione dei Felupe è rottura col passato, inizio di una vita nuova con Cristo: quindi è sacrificio, rinunzia, sofferenza, tentazione di tornare ai costumi pagani del passato, una lotta quotidiana contro se stessi. Chi decide di convertirsi sa che deve perdonare le offese, abbandonare ogni sentimento di vendetta; lasciare il culto degli spiriti, non credere più agli stregoni; avere una sola moglie ed esserle fedele, amare e dedicarsi alla propria famiglia, rispettando la moglie e i figli; non rubare, non commettere ingiustizie, ecc. Il catecumeno sa che spesso va incontro alla persecuzione o alla marginalizzazione nel villaggio, perché va contro-corrente rispetto alla comunità in cui vive. Però Dio lo aiuta e spesso posso dire che continua ad impegnarsi in questo cammino di conversione, anche perchè consolato dai buoni risultati che ottiene vivendo la vita cristiana: anzitutto si libera dalla paura degli spiriti cattivi e del malocchio, che blocca la gente comune. Il cristiano sa e crede che è sempre nelle mani di Dio e acquista una sicurezza e coscienza viva della sua fede e dei vantaggi che ne derivano, che sono tanti altri.

“Insomma – continua padre Zé – a parità di condizioni, il cristiano vive meglio e si sviluppa di più del non cristiano, io lo sperimento spesso. Ha, come si dice, una marcia in più, non ha più paura del futuro e del mistero nel quale è immersa tutta la vita dell’uomo. Dio non si lascia mai vincere in generosità”, dice padre Zè.

Il quale aggiunge che tra i felupe “la conversione a Cristo è una profonda rivoluzione nella vita dell’uomo, della famiglia, del villaggio: è la rivoluzione portata da Cristo, quella che “Dio è amore”, che cambia tutta la vita dell’uomo,della famiglia, dell’umanità. Non una rivoluzione violenta contro altri, ma una rivoluzione non violenta che incomincia nell’interno del cuore dell’uomo, quando egli decide di credere nel Vangelo e di convertirsi a Cristo: passare dall’egoismo all’altruismo, dall’odio all’amore. Oggi nella tribù dei felupe i cattolici battezzati sono circa 2.300 (altri sono nel catecumenato di 2-3 anni)  su circa 20.000 contribali in Guinea, ma la tribù è più presente nel vicino Senegal. Non sono più perseguitati, anzi sono ammirati perché portano la pace fra i villaggi, si interessano del bene pubblico, hanno famiglia più unite, sono disponibili ad aiutare i più poveri”.




Tutto questo avviene nel mondo “pagano”. Al contrario, nel nostro mondo post-cristiano non è più molto chiaro cosa vuol dire “cristianesimo” e “convertirsi a Cristo”, che è il messaggio della Quaresima. Siamo sommersi da così tanti messaggi, problemi, discussioni, cattivi esempi e scandali, molte voci, ipotesi e proposte, che per molti non è più chiaro cosa vuol dire essere cristiano.

Il nostro problema, di noi battezzati e anche di noi preti, parlando in generale, è che noi ci crediamo già convertiti, per cui la parola “conversione” quasi non ha più significato. Siamo stati battezzati, cresimati, riceviamo l’Eucarestia, andiamo a Messa, preghiamo e se guardiamo al mondo attuale ci consideriamo dei buoni cristiani. Questo l’errore, credo abbastanza comune. Il prete, come il cristiano, non va mai in pensione, non dice mai di essere arrivato alla meta della vita cristiana, che è la conversione a Cristo, l’imitazione di Cristo. Come cristiani, noi ricominciamo sempre una vita nuova ogni mattino e soprattutto nel giorno di Pasqua. La giovinezza della vita cristiana è questa: ricominciare sempre con entusiasmo il cammino che porta all’amore e all’imitazione di Cristo, correggendo a poco a poco le nostre tendenze cattive, i nostri errori di giudizio e via dicendo. Tutto questo non è solo frutto della nostra buona volontà, ma è una grazia che Dio ci dona, se gliela chiediamo.

*Padre Pietro Gheddo è missionario del PIME da 59 anni.

Con la sua santa Croce ha redento il mondo

Redazione SME

Con il I Venerdì di Quaresima riprende la pia pratica della via Crucis comunitaria. Si tratta di un percorso di preghiera scandito da 14 stazioni (fermate) in ognuna delle quali si fa memoria di un momento particolare della salita di Gesù al Calvario, fino alla sua morte e sepoltura. La tradizione ci ha consegnato 14 particolari istantanee delle ultime ore di Gesù, alcune delle quali non risultano documentate dai Vangeli, ma risalgono ad una ininterrotta tradizione popolare della cui veridicità non vi sono dubbi: tra questi, l’incontro di Gesù con la Madre (che dai Vangeli sappiamo essere stata ben presente ai piedi della croce), l’incontro con la Veronica che asciuga il volto del Salvatore intriso di sangue (i Vangeli parlano ampiamente delle donne che seguono Gesù sulla via del Calvario), e ancora le triplici cadute, la spogliazione delle vesti, la deposizione dalla croce. La contemplazione della Passione di Cristo, insegnano concordemente i Santi di tutti i secoli, dona all’uomo pace e consolazione. “Per le sue piaghe – infatti – siamo stati guariti”.

Nella Basilica Santuario di Maria SS. dell’Elemosina la via Crucis sarà pregata ogni venerdì alle ore 17,30.

L’Amore non amato

Diceva S. Agostino che vale più una sola lacrima sparsa meditando sulla Passione di Cristo, che un pellegrinaggio sino a Gerusalemme ed un anno di digiuno a pane ed acqua. Il nostro amante Salvatore ha patito tanto affinché vi pensassimo, poiché pensandovi non è possibile non infiammarsi del divino amore. Gesù da pochi è amato, perché pochi sono quelli che considerano le pene che ha patito per noi; ma chi le considera spesso, non può vivere senza Gesù. S. Francesco piangeva nel meditare le sofferenze di Gesù Cristo. Una volta mentre lacrimava gli venne chiesto che problema avesse; egli rispose che piangeva per i dolori e gli affronti dati al Signore e si dispiaceva nel vedere gli uomini ingrati che non l’amano e non lo pensano.

Il valore del digiuno cristiano: il primato di Dio

Redazione SME

Non si può comprendere il digiuno cristiano al di fuori della visione di fede. Non è mortificazione, non è esercizio di volontà, non è autodisciplina. O, meglio, non è solo queste cose. Lo scopo del digiuno cristiano è di distogliere il nostro sguardo dalle cose di questo mondo per affermare il primato di Dio. Nel digiuno si riafferma un rapporto diretto con il Signore. Un rapporto di relazione con l’Altro che ci precede e ci sovrasta. L’astensione dalle carni durante la Quaresima vuol dire attestare anche nell’aspetto più banale e quotidiano della  vita (l’alimentazione) che vi è Una Persona per la quale siamo pronti a rinunciare al cibo: Lui è fondamentale per la nostra esistenza, ancor più dell’alimento materiale lo è quindi quello spirituale del Suo amore. In questo senso digiunare ed astenersi da carne, uova e derivati degli animali, e da cibi prelibati, ricercati e costosi, significa attestare immediatamente, l’esistenza di un rapporto di amore con Cristo. Questi alimenti, infatti, non vengono proibiti per la loro presunta “purezza” o “impurità”, come accadeva nell’ebraismo, bensì semplicemente in quanto la rinuncia costituisce un metodo di ascesi nell’incremento dell’amore per Cristo. Dunque – lo ribadiamo – il digiuno non è un mero formalismo, ma un autentico atto d’amore. “Chiunque non digiuna significa che non fa sacrifici nella vita, non ama Dio. Ama il suo stomaco. Il digiuno lo si fa per Dio. Se non digiuniamo non possiamo amare Dio. Il digiuno è un modo per guardare a Dio“, afferma Padre Maximos del Monastero di San Dionisio (Katerini – Grecia).

Afferma il card. Betori: “Con il digiuno si riconosce che anche il nostro corpo è un dono di Dio e che il nostro corpo non è tutto. L’imposizione del limite, al cibo o a qualsiasi altro beneficio corporale, significa riconoscere che siamo creature e che la nostra esistenza non è nelle nostre mani ma in quelle del Creatore. Significa anche riconoscere che noi non siamo le cose che possediamo, quelle di cui ci nutriamo, i beni che circondano le nostre giornate. Noi siamo più delle cose, perché noi siamo figli di Dio”.  La sobrietà, che il tempo di quaresima chiede, non è un artificio per una gestione parsimoniosa dei beni, ma il riconoscimento che solo nell’affidamento totale a Dio sta il segreto della nostra autenticità. Credere significa uscire da una vita centrata su se stessi, ma anche da una vita che si disperde in una rete di contatti sociali in cui si cerca approvazione e gradimento.

Sebbene nelle Scritture il digiuno è sempre messo in relazione al cibo, ci sono molti modi di digiunare. Qualsiasi cosa che si può temporaneamente mettere da parte per migliorare la comunione con Dio, può essere considerato un digiuno (1 Corinzi 7:1-5). Il digiuno non ha lo scopo di mortificare i nostri corpi, ma di affermare il primato di Dio sulla nostra vita. Dunque, chiunque può digiunare. Ognuno, infatti, può temporaneamente lasciare da parte qualcosa per affermare l’amore di Dio. Gesù stesso ha digiunato, prima di iniziare la sua “vita pubblica”. Perchè è nel digiuno che si radica la sua vita nel Padre. Con il nostro digiuno possiamo chiedere a Lui di entrare nella Sua intimità col Padre.

Occorre invece fare attenzione al pericolo dell’intellettualismo e del moralismo, tendenze culturali laiche che talvolta penetrano anche in certi ambienti religiosi, che tendono a svilire il valore del digiuno fisico, in quanto scindono il corpo dallo spirito, componenti costitutive dell’uomo, e lo disintegrano anziché ricondurlo all’unità.

Con il digiuno, distogliendo i nostri occhi dalle cose di questo mondo, possiamo focalizzare meglio lo sguardo su Cristo. E si comprende bene – allora – come nel rinnovato rapporto con Cristo vi è spazio anche per i bisogni dei fratelli. Il digiuno Cristiano diventa così uno stile di vita sacrificale per Dio, che ritorna come ministero di servizio verso gli altri. Come ci dice Isaia, colui che digiuna incoraggia l’umiltà, allenta le catene dell’ingiustizia, slega le corde del giogo, libera l’oppresso, nutre l’affamato, provvede per il povero e riveste gli ignudi.