LO SPETTACOLO DELLA CROCE: IMMAGINI E SIMBOLI DELLA NUOVA TELA DELLA PASSIONE DI BIANCAVILLA

Alla scoperta dei significati racchiusi
nel nuovo dipinto della passione del M° Valastro

di Alessandro Scaccianoce

È possibile parlare della crocifissione di Gesù come di uno spettacolo? Scrive San Luca: “Tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto se ne tornava battendosi il petto” (Lc 23,48). Il significato della parola “spettacolo” (in latino spectacŭlum, da spectare, «guardare», che a sua volta traduce il greco theōrein, «osservare») non si riferisce meramente ad una finzione teatrale, ma ad una azione che coinvolge gli “spettatori” e che li muove ad una conversione di vita.
La crocifissione di Gesù non è uno spettacolo che si guarda dall’esterno, con una curiosità che lascia indifferenti, ma esige di lasciarsi coinvolgere fin nel profondo, per guardare con gli occhi dell’anima e assistere al più grande atto d’amore che sia possibile. Ecco perché la Chiesa continua a proporre alla venerazione dei fedeli il Crocifisso. Davanti al vertice di questo amore, ciascuno comprende la propria piccolezza nel modo di amare ed è chiamato a prendere posizione. Ciò che guardiamo, infatti, lascia segni nel nostro intimo.

Questo “spettacolo” è il soggetto della nuova “tela della passione”, opera dall’artista adranita Vincenzo Valastro, realizzata per la Basilica Santuario “S. Maria dell’Elemosina” di Biancavilla, dove campeggia sull’abside dell’edificio, come segno penitenziale per il tempo di Quaresima, invito a riscoprire l’essenziale della nostra fede. E qui resterà fino alla notte di Pasqua, quando – secondo un’antica usanza diffusa nel nostro territorio – al canto del “Gloria” verrà fatta precipitare a terra (“a cascata da tila”), cedendo il posto al Cristo risorto.

Realismo storico e simbolismo teologico si intrecciano in quest’opera, che pone a fianco soldati romani impassibili e angeli in pianto, fino alla partecipazione di tutta la Trinità. L’umano e il divino, il cielo e la terra, esseri visibili e invisibili partecipano a quest’ora di sofferenza e di redenzione per il mondo intero.

La ricchezza della scena merita attenzione, per comprendere la profondità di ciò che l’artista ha voluto esprimere col suo lavoro.

In premessa, desidero spendere due parole sull’uomo e sull’artista, Vincenzo Valastro, umile e riservato, che nell’arte non cerca la sua affermazione personale, non insegue il successo, ma ama l’arte per l’arte, senza secondi fini, dimostrando dedizione al lavoro, indipendentemente dal tornaconto; tratta con uguale attenzione le grandi come le piccole committenze, e spesso trascura anche il compenso adeguato e meritato. Un artista poliedrico, dal gusto raffinato e colto, che merita di essere valorizzato, perché possa esprimere la sua arte a beneficio di questa terra di cui egli conosce ed ama persone, storie e tradizioni.

La luce splende nelle tenebre

Alle guardie che lo catturano nel Getsèmani, Gesù dice: “questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre” (Lc 22,53). Il dipinto gioca tutto sui toni del grigio, nubi e tenebre sembrano dominare la scena per chi si accosta all’opera. Una grande macchia scura che domina l’area presbiterale, come la cenere, che è stata posta sul nostro capo il mercoledì delle ceneri.

I Vangeli raccontano espressamente che da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio di quel Venerdì Santo si verificò una eclissi di sole (Mc 15,33: “si fece buio su tutta la terra”), al punto che il paesaggio sembra notturno, fino a lasciar intravedere lo splendore di un chiaro di luna.  Ma il punto prospettico di tutta la scena è il corpo del Crocifisso, dal quale si dipartono dei raggi luminosi che squarciano le dense nubi minacciose e da cui si dipana un’energia che costringe i nembi a ritirare. Tornano alla mente le parole del prologo di San Giovanni: “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5). Il dolore di Gesù è composto, infonde serenità e calma. Da sempre il Crocifisso è il cuore della spiritualità cristiana. Diceva Santa Teresa di Gesù: “Fissate il vostro sguardo sul Crocifisso e vi diverrà facile ogni cosa”.

Una crocifissione trinitaria

In alto, si affaccia il Padre eterno, con le braccia allargate in un gesto accondiscendente che, mentre consegna il Figlio all’umanità (Gv 3,16 “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”), quasi inerme di fronte alla sua sofferenza innocente, contemporaneamente ne accetta il sacrificio per riconciliare nuovamente con sé gli uomini (Col 3,20: “rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”).

Tra il Padre e il Figlio, poggiato sullo stipes (il palo verticale), è lo Spirito Santo, in forma di colomba, perché Egli è l’amore che intercorre tra i due, e che fonda il mistero della salvezza dell’uomo. Quello Spirito che Gesù consegnerà agli uomini con l’ultimo suo respiro: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30).

Una crocifissione “trinitaria”, quella proposta da Valastro, che ricorda il Masaccio, ma si connota per le espressioni misericordiose del Padre e del Figlio. E se è vero che il Figlio prende la carne da Maria, in lui si rivela l’immagine del Dio invisibile, il suo volto misericordioso. Il Padre non è assente nella croce, non abbandona il Figlio, ma riceve da Lui l’offerta libera e generosa di tutta la sua vita. In questo si rivela il volto specifico di Dio, capace di illuminare il mistero della sofferenza umana.

Gli angeli fanno memoria della passione

Tra le nubi fanno capolino putti e angioletti che assistono in pianto all’agonia del Cristo e che ricordano i più celebri dipinti del compianto sul Cristo.

Ai lati della croce, in posizione avanzata rispetto alla cornice, sono collocate due grandi figure di angeli in pose plastiche, quasi come inviti ad entrare nel mistero raffigurato: quello di destra regge la colonna della flagellazione, con i flagelli, strumento della tortura inflitta su ordine di Pilato, e quello di sinistra ostende il lino utilizzato dalla Veronica per detergere il volto insanguinato di Gesù, sul quale è rimasto impresso il volto dolcissimo del Signore. Secondo il mio parere, quest’ultimo è un vero capolavoro per minuziosità e intensità espressiva.

Un po’ più sotto, a sinistra, un angioletto regge un calice, simbolo della passione che Gesù ha affrontato in obbedienza alla volontà del Padre, sebbene, in preda all’angoscia, nel Getsemani avesse pregato: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42). Ora questo calice invece è stato interamente bevuto dal Signore, perché tutto sta per essere compiuto, e quel calice è pronto per accogliere le ultime gocce di acqua e sangue che sgorgheranno dal costato del crocifisso, non appena verrà trafitto dalla lancia del soldato.

Maria e il compimento di una promessa antica…

Ai piedi della croce stanno Maria, la Madre di Gesù, e l’apostolo Giovanni, l’unico rimasto accanto al Maestro fino alla fine. La raffigurazione immortala il momento in cui Gesù si rivolge a Giovanni  per affidargli la Madre, come attesta anche l’iscrizione in latino posta in basso, che riporta in latino una delle sette parole di Gesù pronunciate sulla croce: ECCE MATER TUA (“Ecco tua madre”, Gv 19,27). Dopo aver dato tutto di sé, egli offre anche la sua Madre. Non è la semplice preoccupazione di individuare qualcuno che possa provvedere a Maria in sua assenza, ma il dono grande alla comunità dei suoi discepoli di Colei che era stata scelta per essere la Madre del Figlio di Dio, e che da adesso e per l’eternità diventa Madre dei credenti.

Maria ai piedi della croce attesta il giudizio di condanna del serpente che Dio aveva pronunciato nel giardino dell’Eden, dopo il peccato originale: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stripe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gn 3,15). Ora Maria prende atto che l’antico serpente non può più nuocere, perché nella morte del figlio la morte stessa è stata sconfitta e il peccato perdonato. Per questo, sotto il piede della Madonna è raffigurato un serpente, mentre addenta una mela (simbolo del tentatore, secondo la tradizione iconografica plurisecolare). Ci sembra di sentire le parole di San Paolo: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1Cor 15,55-57).

Questa riflessione spiega anche il senso del teschio, posto poco più innanzi, che evoca il nome dell’altura (Gòlgota vuol dire in aramaico “luogo del cranio”, che in latino si traduce con Calvarium). Secondo l’iconografia tradizionale, esso simboleggia il luogo della sepoltura di Adamo, il primo uomo che ha introdotto la morte nel mondo. Ma rimanda anche alla verosimile presenza di teschi dei condannati che rimanevano insepolti. Secondo altri, era la forma dell’intera collina che assumeva la forma di un cranio. E anche questa interpretazione sembra emergere dalle pennellate del Valastro, che ha delineato l’intera montagnola a forma di teschio.

Dall’altra parte del palo della croce è raffigurata Maria Maddalena, in ginocchio e con i capelli sciolti, secondo l’iconografia tradizionale, che la identificherebbe con la peccatrice che ha lavato a Gesù i piedi con le sue lacrime e li ha asciugati coi capelli. Davanti a sé un vasetto di unguenti in vista della sepoltura del corpo di Gesù.

Un paesaggio comune

Una particolare menzione merita il paesaggio sullo sfondo, che non è la tradizionale città di Gerusalemme, ma tra l’Etna fumante, il campanile del Sada, il Castello normanno e una porta che ricorda il ponte dei Saraceni, sembra richiamare piuttosto questo scorcio di Sicilia pedemontana. La crocifissione, com’è noto, è avvenuta fuori delle mura di Gerusalemme. La punizione non doveva turbare le attività quotidiane della città e coloro che si erano macchiati di gravi crimini, tanto da meritare la morte, prima ancora di essere uccisi dovevano essere “scomunicati” ed espulsi dalla città.

A questa sorte è sottoposto anche Gesù. Egli muore fuori dalle porte di Gerusalemme, ma nell’idea di Valastro la crocifissione si realizza anche fuori dai nostri confini, proponendo così una riflessione sul senso del nostro stare insieme e del nostro senso comune. Egli conosce il forte senso identitario dei nostri centri e le nostre tradizioni religiose. E forse anche per noi c’è il rischio di espellere le risorse migliori, di condannare il giusto in nome della convenienza politica, di togliere di mezzo chi ci sprona a cambiare: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo” (Gv 18,14).

Soldati, strumenti della sorte…

Al livello più basso della tela si staglia un soldato, ritto, a cavallo, mentre regge con la destra la lancia. Egli sembra sovrintendere senza nessuna compassione alla crocifissione. Per lui è niente più che un lavoro. È un condannato come tanti. Nessuna emozione traspare sul suo volto. È troppo abituato alla violenza, non si lascia scalfire dal dolore umano. Il rischio di questo soldato è quello che riguarda tutti noi: una coscienza che diventa anestetizzata al dolore innocente e alla sofferenza dei fratelli. Le tante scene di dolore di cui siamo quotidianamente spettatori, direttamente o tramite i social, finiscono per abituarci a una certa ineluttabilità del male, ci creano una scorza di indifferenza.

Eppure quel centurione, che secondo la tradizione prenderà il nome di Longino, assistendo al modo in cui era morto quel condannato, potrà esclamare: “Costui era veramente il figlio di Dio” (Mc 15,39). Non lo convinse la sofferenza o la quantità di sangue sparso, ma il modo in cui Gesù consegnò la sua vita, morendo da figlio, facendo di una condanna un’offerta, di un dolore inflitto un sacrificio offerto per amore. Secondo la tradizione, Longino, convertito alla fede, è morto martire.

Un martello e una tenaglia, in disparte, ricordano gli strumenti utilizzati dai carnefici. C’è anche una coppia di dadi, dimenticati dai soldati che hanno tirato a sorte per assegnarsi la tunica di quel condannato. Perché la sorte ha assegnato la tunica di Cristo ad uno solo di quei soldati? Esiste davvero il cieco destino, o è tutto in qualche modo predestinato? Gesù ha scelto il suo destino o l’ha subìto? I dadi ci richiamano queste domande.

Il lato destro della croce rimane in ombra: sullo sfondo il paesaggio termina a strapiombo su una vallata, forse la “Geenna”, dove ardeva un fuoco perenne per bruciare i rifiuti della città, luogo che Gesù richiamava nelle sue parabole per dare l’idea della dannazione eterna. E proprio qui, in questo contesto che evoca aridità e desolazione, a tinte nere, l’occhio attento scorge un albero da cui pende il corpo di un uomo, l’unico dei discepoli di quell’uomo che non ha creduto alla sua offerta di misericordia, Giuda.

Venite a vedere questo “spettacolo”

La croce è qualcosa che si guarda con gli occhi, ma che nutre il cuore e alimenta la nostra fede. Ben consapevole di ciò, San Leonardo da Porto Maurizio, con la tradizione francescana, introdusse la pratica della Via Crucis, per riproporre alla meditazione dei fedeli tutta la grandezza dell’amore di Cristo.

Le statue della passione, le tele, e questa in particolare, si collocano nella plurisecolare tradizione artistica che alimenta la pietà dei fedeli, come “Biblia pauperum”, Vangelo illustrato, catechesi per immagini.

Il Crocifisso è il protagonista, suo malgrado, di uno spettacolo che interpella la nostra vita, e ci chiede di prendere posizione davanti ad un amore sconfinato, persino “folle” per la logica del mondo. Il suo sguardo, la sua presenza, abbraccia tutte le nostre miserie, le nostre piccolezze, le nostre fatiche, i nostri dolori, le nostre contraddizioni, i nostri peccati con questi occhi pieni di misericordia. È questo lo “spettacolo” che il M° Valastro offre alla nostra contemplazione, nel desiderio di apprendere un po’ di questo amore, di cui il nostro mondo ha urgente bisogno. Venite a vedere e lasciatevi convertire da questo “spettacolo”!