Redazione SME
 
I credenti oggi digiunano ancora in preparazione alla Pasqua? È ancora osservato il precetto dell’«astinenza dalle carni»? E, più in generale, il senso cristiano della penitenza rimane vivo o viene scalzato da un certo buonismo “pastorale”? Esperti e teologi interpellati sulla questione variano le loro considerazioni al riguardo. Il giudizio di padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, è netto: «Fare penitenza in Quaresima significa imparare a vincere le passioni momentanee per ricordarci dell’essenziale, vivere i quaranta giorni di deserto col Signore e non con noi stessi. Credo che stiamo perdendo questa abilità dello spirito cristiano».
 
Per Lucio Coco, studioso di patristica occorre recuperare il senso profondo del “fare a meno” per motivi spirituali: «La quaresima ci ricorda questo: “Fatti un po’ da parte, cedi il passo, smetti di accontentare te stesso, pensa agli altri. Riduci il tuo io, non cedere alla lusinga della tentazione che ti promette potenza”». La parola “penitenza”, spiega il patrologo, ha nella sua etimologia la radice “pena”: «Riecheggia un certo senso di giustizia che noi esercitiamo nei confronti di noi stessi privandoci di qualcosa. Tuttavia non rende la ricchezza del termine greco che traduce, “metánoia”. In questo caso non prevale la pena, ma il cambiamento di abitudini, pensiero e stili di vita». Conversione, dunque: «Io posso anche digiunare ma non come un automatismo. La penitenza dei Padri, cioè la conversione, prima della giustizia prevede un atto di fede. Diversamente, senza questo nostro re-inserirci in Dio, ogni nostra azione risulterebbe slegata perché priva di quell’atto di fede in Cristo, presupposto di ogni autentica penitenza».

Cettina Militello, docente al Marianum di Roma, conferma la percezione della «perdita della dimensione penitenziale come palestra di autoriconduzione ai valori veri. Ciò si inscrive nella cesura della fede, ovvero la rottura della trasmissione della fede che è un tutt’uno con la perdita culturale di un modello austero del vivere, del parlare, dell’agire».
 
«Non ho dati o numeri precisi ma posso attestare, dalla mia frequentazione del mondo giovanile che tra i giovani forse il 10% sa e pratica il digiuno e non mangia carni i venerdì di quaresima. Il panorama su questo aspetto è desolante e preoccupante». La sconsolante disamina viene da un esperto in materia, il teologo Massimo Salani, docente allo Studio teologico di Camaiore (Lu) e all’Issr di Pisa. 
 
E oggi, com’è la situazione? «Tra i fedeli, salendo con l’età, ci si trova davanti ad una pratica del digiuno frutto più che altro di tradizione, ma non di convinzione». Occorre riscoprire le motivazioni spirituali del digiuno, ma anche l’astinenza dalle carni va rimotivata: «Il problema non è tralasciare la bistecca e mangiare salmone, ma capire che quanto spendo per la carne posso donarlo agli ultimi».E oggi servono nuove forme di digiuno? Gli esperti interpellati avanzano proposte. Spadaro: «Occorre recuperare una “passività buona”. Noi agiamo spesso come risposta a stimoli. L’interattività è la categoria del nostro agire. Invece è necessario un tempo per “limitarsi” a guardare, leggere o ascoltare senza cedere alla tentazione a rispondere agli stimoli: “Ho fame, dunque mangio; arriva una mail dunque devo leggerla, …”. Questa passività consiste nel riuscire a farsi incontrare dalle cose, dalle persone, da Dio. Se viene cancellata, non c’è lo spazio perché qualcosa di “nuovo” possa nascere nella nostra vita, tanto meno la conversione». Coco evoca il “non necessario”: «Si cerca di estendere il digiuno ad altre pratiche, quali spegnere il televisore o evitare il superfluo. In alcuni casi ho notato la tendenza recente a evitare le varie forme di giochi e scommesse che stanno proliferando». Salani sostiene di voler «difendere il valore del digiuno alimentare. I Padri sostenevano che “il digiuno è l’anima della preghiera”. Non è questione di estetica o di perdere qualche etto, ma di riscoprire il legame che lega digiuno, preghiera e carità».
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