L’Arcivescovo di Philadelphia offre a tutti i cattolici una splendida riflessione sul significato di liturgia e missione nel terzo millennio, in un contesto culturale che non facilita il rapporto autentico dell’uomo con Dio. La soluzione sta nel ritrovare il vero senso dell’atto di culto, non nnell’adeguarlo alla mentalità del mondo, sulla scorta delle autentiche intenzioni del Concilio Vaticano II.

di Mons. Charles Chaput*

Nel 1964 Romano Guardini affermava che la ‘Sacrosanctum Concilium’ avrebbe inaugurato una nuova fase nel movimento liturgico, ma scriveva tra l’altro:L’atto liturgico, e con esso tutto ciò che va sotto il nome di ‘liturgia’, non è così fortemente legato al contesto storico – antico o medievale o barocco -, per cui sarebbe più onesto rinunciarvi completamente? Non sarebbe meglio ammettere che l’uomo di questa era industriale e scientifica, con la sua nuova struttura sociologica, non è più capace di atto liturgico?“. L’osservazione di Guardini fece grande scalpore, ma sembra che né teologi né liturgisti abbiano mai preso sul serio i suoi timori. Lasciate che vi dica che io invece quei timori li raccolgo. Penso che egli abbia messo il dito su una delle questioni cardine della missione nel suo tempo, e anche nel nostro.
Ciò che Guardini intendeva per atto liturgico, era la trasformazione della pietà e della preghiera personale in un genuino culto comunitario, la leitourgia, l’ufficio pubblico che la Chiesa offre a Dio. Riconosceva che la preghiera comunitaria della Chiesa era cosa ben diversa dalla preghiera privata di individui credenti. L’atto liturgico comporta un nuovo genere di coscienza, una “disponibilità verso Dio”, una consapevolezza intima dell’unità di tutta la persona, corpo e anima, con il corpo spirituale della Chiesa presente in cielo e in terra. Comporta pure il riconoscimento che i sacri segni e le azioni della Messa – stare in piedi, in ginocchio, cantare e così via – sono in sé “preghiera”. Guardini riteneva che lo spirito del mondo moderno stesse minando le convinzioni che rendono possibile questa coscienza liturgica. Egli spiegava che la nostra fede e il nostro culto non avvengono nel vuoto. Noi siamo sempre in qualche misura prodotti della nostra cultura. Le nostre strutture concettuali, le nostre percezioni della realtà, sono formate dalla cultura nella quale viviamo, che ci piaccia o no.

Oggi quasi nulla di ciò che noi cattolici crediamo è sostenuto dalla cultura odierna. Perfino il significato di “umano” e di “persona” è soggetto a dibattito, come pure altri concetti dottrinali della visione cattolica sono aggressivamente ripudiati o ignorati. Nella nostra vita di ogni giorno siamo circondati da monumenti inneggianti al nostro potere sulla natura e sul bisogno. I trofei della nostra autonomia ed autosufficienza sono ovunque – palazzi, macchine, medicine, invenzioni. Tutto sembra magnificare la nostra capacità di provvedere ad ogni necessità con il know-how e la tecnologia. Di nuovo la questione diventa: quale influsso ha tutto ciò con la premessa centrale per un corretto culto – che cioè siamo creature dipendenti dal nostro Creatore, e che dobbiamo rendere grazie a Dio per tutti i suoi doni, a cominciare dal dono della vita?

Possiamo porre le stesse questioni a proposito della nostra missione di evangelizzazione. Noi predichiamo la buona notizia che questo mondo ha un Salvatore in grado di liberarci dalla schiavitù del peccato e della morte, ma che impatto ha questa buona notizia in un mondo in cui la gente non crede nel peccato o che ritiene di non avere niente da cui essere salvata? Quale senso può avere la promessa della vittoria sulla morte per gente che non crede che esista nulla al di là del mondo visibile?

Allora ha ragione Guardini nell’affermare che l’uomo di oggi sembra incapace di vero culto? Penso di sì. Ma la domanda più importante per noi è questa: se ha ragione, noi che cosa faremo?

Padre Robert Barron affronta il tema in questo modo:Il progetto non è formare la liturgia secondo le congetture dell’epoca, ma far sì che la liturgia interpelli e formi le congetture di ogni tempo. L’uomo di oggi è incapace di atti liturgici? Probabilmente. Ma non vi è nessuna ragione per disperare. Il nostro fine non è adeguare la liturgia al mondo, ma lasciare che la liturgia sia se stessa – un’icona trasformativa dell’ordo di Dio“.

Gli sforzi per inventare una liturgia più “rilevante” e “intelligibile” mediante una sorta di incessante culto della novità, ha generato solo confusione e una separazione ancora più profonda fra i credenti e il vero spirito della liturgia.

Il prossimo grande compito del rinnovamento liturgico è costruire un’autentica cultura eucaristica, infondere una nuova sensibilità sacramentale e liturgica che renda i cattolici capaci di affrontare gli idoli e gli emblemi della nostra cultura con la fiducia dei credenti che traggono vita dai sacri misteri nei quali si entra in comunione con il Dio vivente. Spero ora di dare il mio piccolo contributo per questo grande sforzo di rinnovamento presentando quattro punti:

1) Dobbiamo recuperare la connessione intrinseca e inseparabile fra liturgia ed evangelizzazione. La liturgia è fonte e scopo della missione ecclesiale. Lo insegnava Cristo, era la prassi della Chiesa primitiva ed è stato riaffermato dal Concilio Vaticano II. Noi evangelizziamo per far entrare in comunione con il Dio vivente nella liturgia eucaristica, e a sua volta, l’esperienza di comunione con Dio ci spinge ad evangelizzare.

2) La liturgia è partecipazione alla liturgia celeste nella quale adoriamo in spirito e verità con la Chiesa universale e la comunione dei santi (Sacrosanctum Concilium, 8). Questa è forse la dimensione liturgica più trascurata oggi. Se le nostre liturgie le troviamo banali, ristrette, troppo incentrate sulle comunità di appartenenza con le proprie particolari esigenze, se mancano di un senso potente del sacro e del trascendente, è perché abbiamo perso il senso della partecipazione del nostro culto con la liturgia celeste.

Nella Divina Liturgia, il Regno viene sulla terra così come in cielo. Cielo e terra sono pieni della gloria di Dio. Questa è la nostra fede, ma non so quanti credenti di fatto la vivano. Il Libro dell’Apocalisse ci mostra la liturgia celeste. Ricordate come inizia, San Giovanni “fu preso dallo Spirito nel giorno del Signore”. In altre parole, stava celebrando l’Eucaristia di domenica quando gli fu data una visione del culto del cielo e del mondo a venire (Ap. 1, 9-10). Il libro è pieno di immagini liturgiche e sacramentali. A un certo punto, Giovanni vede una moltitudine innumerevole da ogni tribù, lingua, popolo e nazione che adorava l’Agnello eucaristico. Il vertice del libro è l’avvento di “un nuovo cielo e una nuova terra” con l’annuncio “ecco la dimora di Dio con gli uomini”.

Ogni volta che celebriamo la liturgia sulla terra, noi pregustiamo in essa la consumazione della storia. Questa verità dovrebbe trasformare il nostro modo di celebrare e muoverci alla gratitudine nel vedere che il nostro Dio ci ha concesso il privilegio di unirci agli angeli e ai santi nell’adorazione dinanzi a Dio; dovrebbe renderci desiderosi di celebrare liturgie che siano venerabili e belle, che rivolgano il nostro cuore e la nostra mente alle cose di lassù.

3) Occorre fare ogni sforzo per recuperare e vivere la stessa vibrante spiritualità liturgica ed evangelica dei primi cristiani. Alcune delle peggiori idee liturgiche post-conciliari erano mosse da un vago romanticismo sul modo in cui i primi cristiani credevano e celebravano, persuasi ad esempio che la Chiesa agli inizi non avesse il sacerdozio sacramentale e che l’Eucaristia avesse un rituale limitato, che fosse essenzialmente un pasto tra amici. Il problema con queste ricostruzioni nostalgiche – primitiviste – si può sintetizzare in un unico concetto: nessuno rischia la tortura e la vita per un pasto con gli amici, poiché proprio tortura e morte venivano sentenziate per quanti venivano sorpresi a celebrare l’Eucaristia al tempo della Chiesa delle origini. Ci sono racconti a iosa su questi fatti. Tra questi, mi commuove in particolare una testimonianza che ci giunge dall’anno 304, durante la grande persecuzione di Diocleziano dai Martiri di Abitene, un villaggio nei pressi di Cartagine. Un giovane di nome Felix, che aveva il ministero di lettore, interrogato sui motivi per cui aveva disobbedito al decreto dell’imperatore, rispondeva: “come se uno potesse essere cristiano senza la Messa o che si possa celebrare la Messa senza un cristiano!… Il cristiano esiste con la Messa e la Messa nei cristiani! L’uno non può esistere senza l’altra… Abbiamo celebrato l’assemblea gloriosa, e ci siamo radunati per leggere nella Messa le Scritture del Signore”. Notiamo in questa confessione gli stessi temi di cui stiamo parlando. Per quei discepoli la Messa non è una semplice mensa. E’ “assemblea gloriosa”, una liturgia celeste che designa la loro identità di cristiani come anche l’identità della Chiesa, tanto è vero che uno dei compagni martiri di Felix confessava: “Non possiamo vivere senza la Messa”.

Uno degli impatti più gravi della cultura relativistica sull’Eucaristia è il fatto che per noi la domenica non è più il primo giorno della settimana ma l’ultimo giorno del “weekend”. Gesù Cristo risuscitò dai morti “il primo giorno della settimana” (Mc. 16, 2). Per questo, i primi cristiani veneravano la domenica come la “Pasqua settimanale”, il giorno del Signore. Lo stesso vale per noi. La Messa deve essere la nostra offerta spirituale all’inizio di ogni settimana, non un qualcosa che “infiliamo” nel nostro tempo libero prima di tornare al lavoro il lunedì. Anche questo sottile cambiamento di prospettiva potrebbe avere un forte impatto sul modo in cui celebriamo e come viviamo la nostra fede nel mondo.

4) La liturgia è una scuola di amore oblativo. La legge della nostra preghiera sia anche la legge della nostra vita. Lex orandi, lex vivendi. Siamo chiamati a diventare il sacrificio che celebriamo. E’ impressionante notare quanti racconti dei primi cristiani martiri, soprattutto racconti di vescovi e sacerdoti, siano narrati in “chiave eucaristica”. E’ un classico il martirio dell’anziano vescovo Policarpo arrostito vivo. I testimoni diranno di aver sentito il profumo non di carne bruciata, ma di pane spezzato. L’altro esempio classico è Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia. In prigione aspettando la sua esecuzione che consisteva nell’essere sbranato dai cani, scrisse: “Sono farina di Dio dato in pasto alle bestie feroci per essere trovato pane puro di Cristo”.

Non soltanto i martiri sono offerta eucaristica, ma anche voi ed io ed ogni credente battezzato. Di continuo leggiamo nel Nuovo Testamento che tutti siamo chiamati ad offrirci a Dio come sacrificio vivente di lode, santo e gradito a Dio (Rom. 12, 1). Questa è la prima pietra della dottrina cattolica sul sacerdozio comune di tutti i battezzati. I primi cristiani si sentivano gli eredi della vocazione data a Israele, “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa”. Tutti i battezzati, con il sacerdozio della propria vita, sono chiamati a offrire non il sacrificio cruento di animali, ma il sacrificio del cuore, simbolo della vita, in imitazione di Gesù Cristo.Il nostro sacrificio di lode è innanzitutto nell’Eucaristia. Questo intende il Concilio quando esorta alla “partecipazione attiva” del laicato nella liturgia (SC, 14). Un’espressione che purtroppo è stata presa come licenza per ogni sorta di attività esteriore, agitazione ed efficientismo nel culto. Non era affatto questa la volontà del Vaticano II. La “partecipazione attiva” si riferisce al movimento interiore del nostro spirito, la nostra intima partecipazione all’azione di Cristo nell’offerta del suo corpo e sangue. Ciò esige che si abbiano spazi e “pause” durante la celebrazione per raccogliere le nostre emozioni e pensieri, e fare un atto consapevole di offerta di sé. Dobbiamo “innalzare i nostri cuori” e metterli con contrizione ed umiltà sull’altare insieme al pane e al vino.

Ma la nostra opera non finisce con la Messa. Lungo i nostri giorni, tutto – lavoro, sofferenze, preghiere, incarichi – tutto ciò che facciamo e sperimentiamo deve essere offerto a Dio come sacrificio spirituale. Tutto sia offerto a lode e gloria del nome di Dio e per la salvezza dei nostri fratelli e sorelle. Questo è un altro grande insegnamento del Concilio che dobbiamo ancora integrare nella nostra ordinaria spiritualità. Tutto quello che facciamo, nella liturgia e nella nostra vita nel mondo, è al servizio della consacrazione del mondo a Dio.

Così, cari amici, abbiamo chiuso il cerchio. Ecco la risposta alla sfida di Guardini. Voi siete la risposta alla sua sfida. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando fate della vostra vita una liturgia, quando la vivete liturgicamente, un’offerta a Dio nel ringraziamento e nella lode per i suoi doni e per la salvezza. Voi siete il futuro del rinnovamento liturgico. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando considerate la vostra vita e il vostro lavoro nella luce del progetto di Dio sul mondo, alla luce della sua volontà che tutti gli uomini e le donne si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tim. 2, 4). Il mistero che celebriamo con gli angeli e i santi deve radicarsi profondamente nella nostra vita e personalità, deve portare frutto. Ciascuno di noi deve dare il proprio unico contributo al misericordioso disegno di Dio – che tutta la creazione diventi adorazione e sacrificio a lode della sua gloria. E’ quanto mai conveniente che concludiamo e ce ne andiamo con le parole di uno dei nuovi inviti di congedo del nuovo Messale Romano: “Glorificate il Signore nella vostra vita. Andate in pace”.

*stralci di un articolo pubblicato su Messainlatino.it

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: