Carmelo Mazzaglia: la malattia come dono

Pubblichiamo una presentazione della figura di Carmelo Mazzaglia, un ragazzo biancavillese che vive con grande fede la sua condizione di malattia. Una testimonianza forte e convincente della straodinaria capacità dell’Amore di Dio di trasformare in dono anche il dolore. L’esperienza umana e di fede di Carmelo è l’oggetto del suo primo libro “Il dono più grande” che verrà presentato a Biancavilla nelle prossime settimane.

di Don Giovambattista Zappalà*

Conosco Carmelo dal duemila, anno in cui sono stato nominato parroco presso la comunità parrocchiale dell’Annunziata di Biancavilla. È qui che Carmelo ha ricevuto la Prima Comunione, la Cresima e ancora oggi coltiva e alimenta la sua fede.

In parrocchia, da anni, Carmelo svolge diversi servizi: è catechista, collabora con i responsabili dei ministranti. Ogni domenica, insieme con altri strumentisti, anima la messa domenicale delle 10, frequentata dai ragazzi del catechismo. Così ci aiuta a pregare cantando.

Carmelo è un ragazzo che ha qualcosa di grande e di bello da dire, da presentare, da dare, da testimoniare: “Credere è bello!”. Egli ha individuato proprio l’essenza della nostra fede cattolica, che non è un cumulo di proibizioni, ma una scelta positiva, è un grande “sì”: sì a Dio, sì a Cristo, sì all’amore, sì alla vita, sì al perdono, sì alla solidarietà, sì al servizio, sì alla preghiera, sì alla generosità.  Queste sue parole, dunque, sono un vero inno alla vita e all’amore. Carmelo ha piena consapevolezza che il cristianesimo è una scelta positiva. Posso testimoniare che egli vive la sua fede con consapevolezza, maturità, forza, gioia, direi pure con orgoglio.

Dalla sua cattedra di sofferenza ci insegna che la fede o la si vive in pienezza o la si tradisce. Carmelo non è di mezze misure! La fede cattolica, del resto, non è fatta per i superficiali; non è fatta per chi vuole vivere nella mediocrità o in modo qualunquista.

Papa Paolo VI ripeteva che il cristiano non è facile, ma è felice. Un cristianesimo facile e comodo non esiste!

Carmelo ha compreso che la vita è un dono che ci è stato consegnato da Dio. Dono da amministrare e utilizzare bene per opere buone. La vita è responsabilità e non abitudine, appiattimento, tanto meno è chiusura e ripiegamento sui proprio bisogni. La vita, ci conferma Carmelo, è un talento da trafficare, così come fa lui, attraverso l’intelligenza, la parola, l’attitudine musicale, la capacità di usare il computer e di navigare su internet.

Carmelo, come ogni uomo, e più di tutti noi, sa che cosa significhi la sofferenza. Mai ha fatto pesare agli altri la sua limitazione, rarissimamente parla della sua malattia, non si mette a raccontare le sue notti insonni per le difficoltà a respirare…

Carmelo è la prova che il cristiano, nella sofferenza, guarda a Cristo crocifisso non solo in quanto fonte di consolazione, ma quale strumento di salvezza; egli sa che l’albero della croce produce frutti di santità, che è occasione di purificazione, di distacco, per acquistare meriti per la vita eterna. Gesù lo aveva detto: Chi vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua. Prendere la croce significa prontezza nell’affrontare situazioni contrarie ai nostri desideri e alla nostra volontà e nel sopportare le difficoltà inaspettate. Carmelo ha abbracciato la croce, ha accolto la sua grave malattia, e segue Gesù, configurandosi ogni giorno a Lui, il Crocifisso risorto, che è vivo e presente nella Chiesa per continuare a donare speranza a quanti guardano alle sue piaghe!

Oggi viviamo in un contesto culturale e sociale che celebra tutto ciò che è eccezionale, straordinario, grandioso. E si sprecano i prefissi attinti da varie lingue: super, iper, mega, per indicare una forza e una autosufficienza illusorie. Gesù, invece, proclama una beatitudine diversa: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Chi sono questi piccoli? Non sono i poveri in senso materiale, o persone prive di istruzione; i piccoli del Vangelo sono coloro che vivono la loro condizione di uomini bisognosi di tutto, che sperano tutto, che dipendono da tutti, che non si affidano a sicurezze terrene di potere, ma si affidano a Dio Padre. Certamente Carmelo è uno di questi piccoli; a lui il Signore ha rivelato i tesori della sua sapienza e la beatitudine del suo amore.

All’umanità stanca, povera, affaticata, Gesù ripete ancora oggi: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Essere con Gesù, stare con Gesù è veramente arricchente e gratificante e Carmelo ne è un esempio vivente, come conferma nel suo primo libro, ma soprattutto con la sua vita che è una lode incessante a Dio e un servizio ai fratelli.

*Dalla presentazione del libro “Il dono più grande” di Carmelo Mazzaglia.

La Santità nella malattia: l'esperienza di Chiara Badano

Redazione SME

Chiara Badano, nasce a Sassello, nell’entroterra ligure, il 29 ottobre 1971 da Ruggero e Teresa Caviglia, dopo una gravidanza difficile e un parto complicato. Nulla di speciale si segnala nella prima infanzia. Recalcitrante  alle preghiere, a donare i giocattoli che non usa più ai bambini poveri o ad aiutare la mamma ad apparecchiare la tavola. In quarta elementare Chiara e i suoi genitori entrano in contatto con il Movimento dei Focolari. Dopo le scuole medie decide di iscriversi al liceo classico di Savona, ma la quarta ginnasio è molto dura. Non la supera. E’ il primo dolore, che diventa l’occasione per vivere uno dei cardini della spiritualità di Chiara Lubich, l’amore a Gesù Abbandonato. Nella semplice giovinezza di Chiara tutto è serenità e vigore, anche il breve flirt con Luca, un ragazzo di Sassello. L’autunno del 1988 è decisivo: Chiara avverte i primi insistenti dolori a una spalla. Gli esami rivelano la presenza di un tumore alle ossa. Viene ricoverata a Torino, ma la gravità della sua malattia non le viene rivelata, anche in occasione dell’intervento che rimuove il tumore. Lei è serena e convinta di potercela fare. L’intervento riesce, ma aggiunge nuovi dolori fisici.

Comincia la chemioterapia a Torino, in un piccolo appartamento che il movimento dei Focolari ha messo a disposizione per evitare i lunghi viaggi da Sassello. Entrando in ospedale, Chiara legge la scritta “Reparto oncologico” e capisce. Per accettare la volontà di Dio ha bisogno di un po’ di tempo, come quando era bambina. Sono venticinque minuti di solitudine: il suo orto degli ulivi? Sua madre Teresa, testimone della lotta nel cuore della figlia, coglie nello sguardo il segno del sì. Poi anche altri, i medici, gli infermieri, gli amici, soprattutto l’amica del cuore Chicca vedono la tranquillità e la fortezza con cui sopporta dolori spesso lancinanti.

Quando può continua a studiare, a incontrare i suoi amici. Poi un nuovo progresso della malattia le toglie l’uso delle gambe. Dona a un amico impegnato in Benin tutti i soldi ricevuti in dono per i suoi diciott’anni: così si compie il suo sogno di dedizione all’Africa.

In uno dei tanti ricoveri incontra il cardinal Saldarini, in visita agli ammalati. “Come fai a essere così serena?”, le chiede notando lo sguardo luminoso. “Cerco di amare Gesù”.

La malattia precipita nell’estate e Chiara rivela all’amica Chicca e alla mamma il desiderio che il suo funerale sia una festa. Chiede di essere vestita di bianco, indica le canzoni da eseguire. Pochi giorni prima della morte Chiara sente la misteriosa presenza del Maligno che vuole sprofondarla. L’aiuto della mamma la rincuora. La notte del 7 ottobre 1990, festa della Madonna del Rosario, muore. Le sue ultime parole sono per Teresa: “Mamma, ciao. Sii felice perché io lo sono”.

E’ stata beatificata a Roma il 25 settembre 2010.

* * *

Fin qui il racconto della sua storia. Desidero, tuttavia, aggiungere un ricordo personale. L’anno scorso, ho avuto l’opportunità di incontrarmi con l’esperienza di Chiara, assistendo alla testimonianza offerta dai suoi genitori a Milano, nella Chiesa di Sant’Ambrogio. Dopo aver ascoltato il racconto commosso ma pieno di grande serenità e fiducia di mamma e papà Badano ho fatto le seguenti riflessioni:

1 ) davvero la santità è bella ed è desiderabile! essa è in grado di dare una luce nuova alla vita;

2) la santità è feconda: quello che i genitori di Chiara hanno fatto per lei, in termini di assistenza e cura personale, non è minimamente paragonabile a tutto quello che Chiara ha donato alla sua famiglia, infondendo ai suoi cari coraggio e forza;

3)  la felicità non è una condizione utopistica; non consiste nell’evasione dalla nostra storia, ma nell’immergersi in essa fino in fondo, entrando in sintonia con la volontà di Dio.

Alessandro Scaccianoce

La festa della Candelora

Il 2 febbraio la Chiesa Cattolica celebra la Festa della Presentazione di Gesù, anche detta “Festa delle luci“. Quaranta giorni dopo il Natale, infatti, Gesù fu condotto da Maria e Giuseppe al Tempio, sia per adempiere quanto prescritto dalla legge mosaica, sia soprattutto per incontrare il suo popolo credente ed esultante. Al Tempio Maria e Giuseppe incontrano Simeone e Anna. Simeone, nel suo celebre “Cantico” riportato dal Vangelo di Luca, definisce Gesù “luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele” (cfr Lc 2,30-32). Da qui, la festa del 2 febbraio assume il senso di “festa della luce” ed è tradizionalmente celebrata con il rito della processione e benedizione delle candele (da cui il termine “candelora”). Secondo la liturgia Cattolica, la formula prevista per l’annuncio della processione e benedizione delle candele è la seguente:

Il Signore nostro Dio verrà con potenza, e illuminerà il suo popolo. Alleluia. Fratelli carissimi, sono passati quaranta giorni dalla solennità del Natale. Anche oggi la Chiesa è in festa, celebrando il giorno in cui Maria e Giuseppe presentarono Gesù al tempio. Con quel rito il Signore si assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede. Guidati dallo Spirito Santo, vennero nel tempio i santi vegliardi Simeone e Anna; illuminati dallo stesso Spirito riconobbero il Signore e pieni di gioia gli resero testimonianza. Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane, nell’attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria.

 La “Festa delle luci” ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. La prima testimonianza storicamente accertata di questa festa si ha nel secolo IV a Gerusalemme. Una importante e antica testimonianza di questa festa ci è data da Egeria (scrittrice romana del IV-V secolo) nel suo Itinerarium Egeriae (in cui descrive un viaggio nei luoghi della cristianità). Egeria ci parla di un certo “rito del Lucernare” così descrivendolo: “Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima” (Itinerarium 24, 4). Questo rito del lucernare pare essere una evoluzione dell’antica festa romana dei Lupercali, che si celebrava proprio verso metà febbraio. A partire dal VI secolo la festa della Candelora si estese anche in Occidente: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con carattere più festoso, grazie alla processione delle candele (candelora). Fino alla recente riforma del calendario liturgico, tuttavia, questa festa si chiamava “festa della Purificazione della SS. Vergine Maria“, poichè si poneva l’accento sulla tradizione ebraica secondo la quale una donna era considerata “impura” (nel senso liturgico del tempo) per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva pertanto recarsi al Tempio per purificarsi. La festa della presentazione del Signore chiude il periodo delle celebrazioni natalizie e apre il cammino verso la Pasqua.

Presentazione di Gesù al Tempio

Le Crociate: una pacata riflessione storica

di Massimo Viglione

Cosa furono le Crociate? La Crociata era un “pellegrinaggio armato” fatto da cristiani che conduceva al combattimento contro gli infedeli. Possiamo credere in una formale condanna della Crociata in sé a prescindere? Proviamo a fare alcune precisazioni.

La Prima Crociata è del 1096-1099, ma in realtà spedizioni crociate sono state pensate, organizzate, e, a volte, anche effettuate, via terra e via mare, fino agli inizi del XVIII secolo. Questa plurisecolare guerra fra religioni non avveniva perché i cristiani erano brutti e cattivi e volevano trucidare tutti i musulmani, che erano buoni e indifesi; né perché i cristiani non avessero altro a cui pensare; né perché non avessero altre guerre interne in cui dare sfogo alla propria violenza innata. In realtà, questa plurisecolare guerra – occorre ricordarlo – inizia 450 anni prima circa. Senza ombra di dubbio storico possibile, chi ha portato la guerra alla Cristianità è stato l’Islam nascente e trionfante. Sono stati i musulmani, vivente ancora Maometto, che conquistarono prima l’Arabia, ancora in gran parte pagana, ma poi anche Gerusalemme e i Luoghi Santi, divenendo così i padroni del Santo Sepolcro; e quindi, dividendosi in due grandi tronconi militari, portarono la guerra a tutta la Cristianità. Dopodiché assalirono e occuparono la Sicilia e le grandi isole del Mediterraneo, e, nei secoli successivi, invasero varie zone dell’Italia, della Francia (fino a Lione), perfino della Svizzera. Montecassino venne distrutta, Roma assalita e le basiliche costantiniane di San Paolo e san Pietro date al fuoco (per tal ragione fu costruita la Città Leonina intorno a San Pietro da Papa Leone IV). Roma viveva sotto continuo attacco e rischiò di cadere preda dell’Islam (come per altro il Profeta aveva, appunto, “profetizzato”), venendo salvata proprio dalla ripetuta azione militare di vari Pontefici. Per secoli l’Europa mediterranea ha subito le scorrerie dei pirati barbareschi (“mammaliturchi”, la celebre battuta del dialetto romano, nasceva da un tragico grido di terrore ripetuto chissà quante volte nel corso dei secoli): uomini uccisi, donne violate e portate negli harem, bambini rapiti e venduti come schiavi (nei secoli moderni, poi, con i turchi invece venivano fatti crescere musulmani e molti di loro divenivano giannizzeri). Per secoli i pellegrini in Terra Santa vennero massacrati, soprattutto con l’arrivo dei turchi selgiuchidi. Con l’arrivo dei turchi ottomani, che conquistarono ciò che rimaneva dell’Impero Bizantino nel XV secolo e da allora, fino agli inizi del XVIII secolo, i musulmani puntarono a più riprese sull’Europa, conquistando gran parte dei Balcani, assediando Vienna per ben due volte, conquistando Cipro, Rodi, e portando l’assedio a Malta (dove vennero respinti dall’eroismo dei Cavalieri, guidati da Jean de la Vallette). Quanti cristiani vennero assassinati? Quante donne violate e deportate negli harem? Quante città distrutte, vite spezzate, anime costrette all’abiura religiosa? Chi potrà mai farne il conto? Chi potrà mai calcolare l’immenso dolore di questi mille anni? Esso evidentemente è la chiave di volta per comprendere un’intera epoca millenaria.

Non solo uno scontro militare fra due religioni, ma fra due concezioni del mondo e civiltà. Il concetto di fondo appare ora evidente: si chiama “legittima difesa”. Alla fine dell’XI secolo i cristiani poterono reagire e riconquistarono Gerusalemme. Ciò significa che le crociate furono fatte con 3 scopi essenziali tutti legittimi: 1) la riconquista cristiana dei Luoghi Santi; 2) la difesa della vita dei pellegrini; 3) la risposta militare a cinque secoli di guerra. Da notare, per inciso, che dopo la fine delle 7 crociate ufficiali, cioè dal XIV secolo in poi, tutte le ulteriori spedizioni crociate pensate ed effettuate avevano come scopo concreto la difesa dell’Europa dai turchi, e non più (se non idealmente) la riconquista del Santo Sepolcro. Non solo: non è solo questione di Papi e di magistero pontificio. Tutti i più grandi santi e teologi medievali e moderni hanno legittimato la Crociata: san Bernardo di Chiaravalle, san Tommaso d’Aquino, santa Caterina da Siena, san Pio V, il beato Innocenzo XI. Non erano creature assetate di sangue, furono difensori supremi della nostra civiltà e della libertà. Mi permetto di ricordare che ancora agli inizi del secolo scorso, una santa carmelitana giovanissima nei suoi scritti diceva che avrebbe tanto voluto essere un crociato per dare la vita per la difesa della Chiesa dai suoi nemici: si chiamava Teresina del Bambin Gesù, Dottore della Chiesa Cattolica, proclamata tale da Giovanni Paolo II. E questo solo per fare alcuni esempi. Occorre stare attenti quando si ci si accosta ad un evento della storia lontano che va ben contestualizzato. Se per mille anni i cristiani hanno combattuto con l’Islam, se per secoli Papi, teologi, Santi, Dottori della Chiesa, sovrani, militari, interi popoli, hanno predicato la crociata o preso direttamente le armi, non sarà stato forse perché ce n’era bisogno?

Certamente, come cristiani, dobbiamo provare vergogna per le violenze, come ha ricordato Benedetto XVI ad Assisi il 28 ottobre scorso (senza tuttavia fare riferimento a nessun evento storico), ma non si può fare ideologia. E se ogni tanto dicessimo una preghiera per chi è morto anche per noi, forse daremmo prova di maggior buon senso e civiltà. Un’ultima questione: siamo proprio così sicuri che un giorno, magari neanche troppo lontano, non potremmo trovarci pure noi nella stessa situazione in cui si trovarono per mille anni i nostri antenati?

Don Bosco: una risposta cristiana ai bisogni del nostro tempo

Redazione SME

dal messaggio del Rettor Maggiore dei Salesiani, don Pascual Chávez Villanueva

Nel cuore dell’Antico Testamento c’è la chiamata di Dio a Mosè, il giorno del roveto ardente. Il Signore nel libro dell’Esodo (3, 7-8) disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e pronunciando gli quattro verbi: “Ho osservato…, ho udito…, conosco…, sono sceso per liberarlo”, manifestò in forma chiara e significativa la paternità perfetta, espressione di non abbandono dei suoi figli.

Don Bosco è stato chiamato a incarnare la paternità di Dio nel nostro tempo, in un periodo di rapide trasformazioni epocali, soprattutto in ambito sociale ed ecclesiale. In particolare si accelerò in quegli anni il processo iniziato con l’Illuminismo che mise fine alla societas cristiana, attraverso il trionfo delle ideologie agnostiche e anticristiane, la conclamata incompatibilità tra ragione-scienza e fede, la progressiva disaffezione dei ceti medi e popolari dalle istituzioni ecclesiali (più rapida in città, graduale nelle campagne). In Italia la questione romana aprì una grave lacerazione nell’animo dei credenti. Sotto la pressione dell’intellighenzia laica anticlericale e della borghesia imprenditoriale, le nuove generazioni, formate in una scuola progressivamente agnostica, rimanevano disorientate, facile preda di idee e pratiche lontane dal costume cristiano. Nello stesso tempo si manifestavano povertà nuove, massicce migrazioni interne e esterne, sradicamenti culturali, sfruttamento lavorativo e abbrutimento morale dei ceti più poveri.

Consapevole che la missione affidatagli dal Signore era quella di salvare i giovani, in un contesto storico caratterizzato da traumi e tensioni sociali Don Bosco si immerse amorosamente e creativamente nel suo tempo, vivendone tutte le vicende con partecipazione spesso sofferta, convinto che la grazia di Dio è più forte di ogni umano ostacolo. Ecco perché la situazione dei giovani poveri che incontrò nella Torino degli anni ’40 e ’50 del diciannovesimo secolo stimolò e orientò operativamente la sua sensibilità educativa, il suo zelo pastorale e i suoi doni naturali che lo portarono a operare un discernimento in funzione proattiva e preventiva, dando vita non solo a iniziative al passo con le esigenze e i gusti dei tempi e dei giovani, ma elaborando risposte tempestive e efficaci a nuovi problemi, nuove sfide, nuovi bisogni, nuovi attacchi “satanici”, a partire da una fede granitica, da una speranza incrollabile, da una donazione assoluta a Dio e ai fratelli, da una libertà interiore frutto di purificazione e distacco da sé.

Per collaborare alla sua lezione di speranza e di coraggio Don Bosco invitò alcuni dei ragazzi che frequentavano l’Oratorio di Valdocco a scegliere la vita sacerdotale e religiosa e diede così vita alla Congregazione Salesiana che si è lentamente e coraggiosamente diffusa in tutto il mondo, impegnandosi a realizzare iniziative educative particolarmente rilevanti.

Attualmente, i Salesiani nel mondo sono complessivamente circa 16.000. Il numero totale è composto da 15.439 professi (un anno fa erano 15162), a cui si aggiungono 414 novizi (l’anno scorso erano 481) e 121 vescovi.

L'arte, canale privilegiato di manifestazione della fede

di Roberto de Mattei

Il Cristianesimo, nel corso della storia, si è tradotto in leggi ed istituzioni, ma anche in ambienti, simboli, riti, monumenti, che parlano ai nostri sensi attraverso forme, suoni, colori. Tutto ciò che cade sotto i nostri sensi ha una certa somiglianza con la realtà soprannaturale che non vediamo e ci offre un’immagine del mondo invisibile

A differenza degli animali, che godono del piacere dei sensi solo per mangiare, bere e riprodursi, l’uomo, attraverso la propria sensibilità è in grado di ascendere alla conoscenza e di provare diletto nella bellezza. All’uomo infatti – spiega san Tommaso d’Aquino – sono stati dati i sensi, non soltanto per procurarsi il necessario alla vita, come agli altri animali, ma anche direttamente per conoscere: «l’uomo soltanto gusta la bellezza medesima delle cose sensibili per se stesse» (Somma Teologica, I, q. 91, art. 3 ad 3). E poiché i sensi sono localizzati in modo particolare sulla faccia, l’uomo – aggiunge il Dottore Angelico – ha la faccia rivolta verso l’alto, mentre gli altri animali l’hanno rivolta alla terra, come per cercare il cibo e provvedersi del vitto.
San Tommaso, seguendo Aristotele, afferma che non vi è nulla nell’intelletto che prima non sia percepito dai sensi. I sensi colgono la bellezza e l’armonia di ciò che esiste nell’universo e lo trasmettono alla nostra intelligenza, che ha come oggetto specifico la conoscenza della verità.

La volontà, a sua volta, ama il bene che l’intelligenza gli propone come vero. Verum, bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza, sono proprietà stabili e permanenti dell’essere che in Dio, Essere perfettissimo, coincidono e costituiscono un’unica perfezione.

La bellezza è dunque l’espressione visibile del vero e del bene. La bruttezza nasconde in sé la perfidia del male e la deformazione della verità. Il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica lo esprime con chiarezza: «La pratica del bene si accompagna ad un piacere spirituale gratuito e alla bellezza morale. Allo stesso modo, la verità è congiunta alla gioia e allo splendore della bellezza spirituale» (n. 2500). Attraverso la bellezza, l’arte, che è la rappresentazione del vero rivestito degli splendori del bello, tende a condurre più facilmente gli uomini alla verità e del bene.

Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti del 4 aprile 1999, ricorda che quando ai cristiani, con l’Editto di Costantino, fu concesso di esprimersi in piena libertà, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, all’interno delle quali risuonava il Canto Gregoriano, che «diverrà nei secoli la tipica espansione melodica della fede della Chiesa durante la celebrazione liturgica dei sacri Misteri».

Le grandi cattedrali medievali costituirono un condensato di bellezza in cui armonicamente convergevano tutte le arti: la architettura, la scultura, la pittura, la musica. Lo storico Erwin Panofsky ha messo in luce il rapporto tra l’architettura gotica e la filosofia scolastica, sottolineando come la luminosità delle cattedrali medievali corrispondesse mirabilmente alla trasparenza di pensiero di opere come la Somma Teologica. La creazione stessa dell’Universo e lo scorrere della storia sotto la guida della Provvidenza può essere paragonato a un Poema o a una sinfonia.

Lo stesso Panofsky sottolinea come, con l’umanesimo, si affermò una nuova concezione del mondo che dissolse quei vincoli che mai erano stati sciolti sin dall’antichità tra il Pulchrum e il Bonum. L’arte rinunciò a scoprire, attraverso i simboli, la natura intima delle cose, per occuparsi soltanto delle loro relazioni quantitative e delle loro misure. Il cammino da allora percorso dall’arte moderna ha portato a quel trionfo dell’“immondo” nell’arte che riflette il vuoto morale e intellettuale della società dei nostri giorni.

Le cattedrali, gli affreschi, le sculture, gli oggetti religiosi, ma anche la musica e la letteratura, che formano il nostro patrimonio culturale testimoniano ancor’oggi la grandezza della Civiltà cristiana. Ma anche le opere d’arte apparentemente profane sono imbevute di spirito cristiano e parlano il medesimo linguaggio. La ricchezza di questo patrimonio offre ai cattolici opportunità grandi e nuove, contribuendo a sviluppare quella rievangelizzazione della società che nel Convegno ecclesiale di Verona del 2006, Benedetto XVI ha definito la missione dell’Italia nell’Europa di oggi.

L’uomo della strada incontra, infatti, il Cristianesimo in due modi: o attraverso l’immagine negativa che ne offrono i mass-media, i libri, le pubblicità blasfeme; o attraverso la testimonianza muta, ma eloquente, dei beni artistici e culturali che riempiono ogni città, ogni comune, ogni paesaggio.
L’arte era un tempo chiamata “Bibbia dei poveri”. Quattro cattedrali, quelle di Amiens, di Chartres, di Oviedo e di San Marco sono state definite le “quattro bibbie nel marmo” per l’evidenza plastica con cui le immagini vi riproducono visivamente la Bibbia. Quella Biblia pauperum che un tempo era destinata agli illetterati oggi può rivolgersi alle tantissime persone che sono povere nella conoscenza della fede.

Uomini e donne di tutti i Paesi e di ogni provenienza ideologica ammirano la bellezza delle opere d’arte cristiane, dimenticando che queste opere non sarebbero state realizzate se non fossero state prima concepite secondo un modo di pensare che era la filosofia del Vangelo. L’opera d’arte, come osserva Costanza Barbieri nel dossier che in questo numero abbiamo dedicato alla Bellezza, non è solo una combinazione di superfici, forme e colori, ma la visualizzazione di un pensiero. Le cattedrali, gli affreschi, gli oggetti che fanno parte del nostro patrimonio culturale hanno alle spalle una visione del mondo che va ritrovata, un significato che va riscoperto. I beni visibili che ci circondano devono cominciare a raccontarci la loro storia, aiutarci a recuperare le ragioni della nostra fede.