Verso Assisi, con Maria Santissima, Madre dei credenti

Non un ostacolo al dialogo, ma un canale di luce e di Grazia, per i Cristiani e per ogni uomo di buona volontà.

di P. Mario Piatti icms

Fin dalle origini la Chiesa ha ravvisato, nella figura di Giovanni -il “discepolo amato”- i tratti distintivi di ogni discepolo del Signore, a cui il Maestro, quale ultimo dono di amore, consegnava dalla Croce sua Madre. Il reciproco “affidamento”, di Giovanni a Maria e del discepolo alla Madre, suggellato dal sangue di Cristo e dalla solennità di “quell’ora” (cfr. Gv 19,25-27), è stato spesso considerato quale fondamento della autentica devozione mariana e della “consacrazione a Maria” (richiesta dalla Vergine stessa nelle sue apparizioni e, ultimamente, in modo assai esplicito, a Fatima).

Senza entrare in questa vasta e affascinante problematica e letteratura, vorrei provare, pur brevemente e semplicemente, ad allargare questa prospettiva, collocandola in un orizzonte universale.

Una certa fatica si avverte, a volte, nel parlare di Maria Santissima ai nostri fratelli separati, soprattutto di area protestante (come si sa, per ragioni culturali e storiche, in Oriente la situazione è diversa) o nel proporla, al di là dei confini propri della cattolicità, agli “uomini di buona volontà”; quasi che la Vergine fosse un possibile ostacolo al dialogo “sui massimi sistemi” o una figura troppo legata alla sfera sentimentale e, quindi, un po’ sdolcinata, priva di consistenza teologica.

In realtà, chi meglio di una Madre può costituire il centro e il raccordo affettivo più vero e più profondo per tutti coloro che seguono Cristo Signore?

La ricchissima tradizione orientale, da un lato, e il rigoroso riferimento alla “sola Scriptura”, dall’altro, in realtà sembrano mirabilmente confluire in Maria, la theotokos, punto di raccordo “umanissimo” e materno delle esigenze evangeliche. Il “versante mariano” della Fede non può che consolidare i ponti di un dialogo – difficile, ma pur sempre fecondo e quanto mai necessario – tra le diverse Chiese, che nella Vergine possono contemplare la risposta più bella, più libera, più responsabile e anche più concreta al Verbo di Dio.

La parente Elisabetta esclama, colma di stupore e ispirata dall’Alto: A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? (Lc 1,43), parole che preludono alle successive solenni proclamazioni della Chiesa, circa la sua maternità divina, la immacolatezza della sua anima, l’assunzione al Cielo; ma che riecheggiano anche nel nostro cuore e nello spirito di chi, senza pregiudizi, si accosta a Lei, raccogliendo, con stupore, una lezione di vita unica, santa, ineguagliabile.

Associata in tutto alla vicenda terrena del Figlio, Maria manifesta, al tempo stesso, in maniera singolare, la sua piena solidarietà con la nostra esperienza umana. È accanto a Cristo sempre e soprattutto in quelle “svolte” esistenziali che segnano la vita di ogni uomo: la nascita, la famiglia, la socialità, la sofferenza, il dolore e la morte.

Tutto, in Lei, è profondamente segnato dalla Fede in Jahvé, dal riferimento alla Parola dell’Altissimo e al mistero della sua Volontà, anche quando angosciata non comprende (cfr. Lc 2,48-50) ma continua a confidare e a serbare nel suo Cuore tutte queste cose (Lc 2,51). Anche quando tutto sembra inesorabilmente concludersi nella tragedia della Croce. Ella accompagna, passo dopo passo, il Figlio nel percorso della sua missione terrena con la fedeltà incrollabile di chi ha posto Dio a fondamento della sua esistenza: lo stabat Mater di Giovanni (19,25) racchiude proprio l’irrevocabilità della sua scelta per Cristo, di cui è Madre ma –e forse più- è la discepola per eccellenza, straordinaria nella sua umiltà e fortezza, nella sua incomparabile dolcezza e nella sua fermezza. Donna di Fede, dunque, donna formata e plasmata dalla Fede, che in Lei produce il frutto di una Carità senza limiti, immagine della Carità della Chiesa. In questo senso Maria parla al cuore dei nostri “fratelli separati”, con il suo accento tipicamente materno.

Ma Ella sa parlare anche al cuore di ogni uomo. C’è un linguaggio universale, fatto di amore, di comprensione, di attenzione e di tenerezza, che la Vergine incarna in un modo del tutto originale. Non a caso il Vangelo di Giovanni si apre, nella sua coloritura mariana, con l’episodio delle Nozze di Cana (GV 2) e si chiude con l’immagine drammatica del Calvario: come a dire che ogni uomo può sentirsi vicino e solidale con quella Donna –a qualunque credo o religione appartenga- perché con Lei condivide ciò che è tipicamente umano, l’esperienza dell’amore (la viva attenzione per gli sposi) e del dolore (la partecipazione alla Passione e alla Croce). Maria è sempre lì, dove una vita scorre, dove c’è una esperienza “umana”: per questo può parlare al cuore di ogni uomo.

Non si tratta certo di estendere, indebitamente e superficialmente, le prerogative mariane in campi che almeno apparentemente) non le appartengono e non le competono, ma di riconoscere un “carisma” unico, espressione del “genio femminile” di Maria, che ha prodotto e produce tanto bene, nella Chiesa, e che può contribuire a dialogare anche con il mondo, a partire proprio dalla sfera della quotidianità.

Benedetto XVI vicino alla Turchia colpita dal terremoto

Appello in occasione dell’udienza generale

Rivolgendosi dopo la sua catechesi alle migliaia di fedeli e pellegrini presenti questo mercoledì mattina nell’Aula Paolo VI, il Papa ha espresso il proprio dolore per la devastazione provocata dal sisma che ha colpito domenica la Turchia.

“In questo momento, il pensiero va alle popolazioni della Turchia duramente colpite dal terremoto, che ha causato gravi perdite di vite umane, numerosi dispersi e ingenti danni”, ha affermato Benedetto XVI prima di salutare i presenti in varie lingue.

“Vi invito ad unirvi a me nella preghiera per coloro che hanno perso la vita e ad essere spiritualmente vicini a tante persone così duramente provate”, ha esortato.

“L’Altissimo dia sostegno a tutti coloro che sono impegnati nell’opera di soccorso”.

Il sisma ha provocato più di 400 morti e oltre 1.000 feriti, ma le operazioni di recupero non sono ancora terminate e ci sono persone che mancano all’appello.

Il Papa ad Assisi per ribadire che Cristo è l'unico Salvatore

“Assisi III” è ormai alle porte. Si tratta di un evento su cui si ragiona da mesi da parte del mondo cattolico e non solo. Qual è il significato di questo incontro? Vuol dire, forse, che tutte le religioni sono uguali? L’allora Card. Ratzinger aveva espresso gravi preoccupazioni per certe interpretazioni sincretiste che si erano affermate dopo l’incontro del 1986. Cosa c’è, dunque, nella “mens” del Papa che convoca uin nuovo incontro interreligioso?.

Alla vigilia dell’evento, vi è un dato di grande importanza, per la comprensione di tale avvenimento. Infatti in questi giorni è stato diffuso (casualmente?) un testo, scritto di pugno dal Santo Padre in risposta alle preoccupazioni sull’incontro espresseGli da un vecchio amico, il pastore luterano Peter Beyerhaus (alle volte si trova l’audacia dove meno si crederebbe…). Esaminiamo dunque con attenzione la risposta, chiaramente privata ma altresì disvelatrice, di Benedetto XVI:

«Comprendo molto bene la sua preoccupazione rispetto alla mia partecipazione all’incontro di Assisi. Però questa commemorazione deve essere celebrata in ogni caso e, dopo tutto, mi sembrava che la cosa migliore fosse andarvi personalmente per poter cercare in tal modo di determinare la direzione del tutto. Tuttavia farò di tutto affinché sia impossibile una interpretazione sincretista dell’evento ed affinché ciò resti ben fermo, che sempre crederò e confesserò quello che avevo richiamato all’attenzione della Chiesa con l’enciclica Dominus Iesus»[1].

È un brano impressionante. Ne emerge con chiarezza che ciò che solitamente si dà per scontato, ovvero che il Papa determini la direzione delle cose nella Chiesa, in realtà non lo è affatto: il Papa ritiene di poter soltanto «cercare in questa maniera di determinare la direzione del tutto». Infatti «questa commemorazione deve essere celebrata in ogni caso». Perché? Il Papa non lo specifica, ma si faccia attenzione al concatenamento del discorso: prima non smentisce affatto l’atteggiamento preoccupato dell’interlocutore, dando anzi l’idea di condividerlo; poi dipinge l’atto in questione come inevitabile anche se Lui non vi fosse andato, ovvero indipendente dalla Sua presenza, e in dipendenza da ciò è il suo andarvi personalmente per cercare di ridurre i pericoli. Ne esce contraddetta ogni lettura ideologica dell’avvenimento, su entrambi i fronti. Infatti, contrariamente a certi commenti temerari di esponenti dell’ “ala dura” del mondo tradizionalista, il motivo non ne risulta ascrivibile a fattori prevalentemente teologici, ad una cieca volontà ecumenista del Pontefice regnante, ma ai condizionamenti in cui Egli si ritrova. Ma contraddetta ne esce anche l’attitudine, parimenti astratta, di certo mondo tradizionale che però vorrebbe mostrarsi allineato anche ad atti del genere; ad esempio volendo assolutamente applicare l’ermeneutica della continuità anche ad Assisi III, e per questa via dandone una valutazione sostanzialmente positiva (se non quasi di lode). Infatti è chiaro – anche dal suo libro con l’allora presidente del Senato italiano Marcello Pera – che Joseph Ratzinger è orientato a sostituire, dolcemente e diplomaticamente, il dialogo propriamente interreligioso con il dialogo sostanzialmente interculturale: ma con un po’ di senso della realtà è altrettanto chiaro che tali incontri di fatto si prestano a gravi pericoli. L’intento correttivo di Assisi I è un aspetto reale della questione.

Anche oggi, infatti, restano valide le parole dell’apostolo Pietro: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stato stabilito che essi possano essere salvati» (Atti 4:12).

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[1] Il testo è stato reso noto – con l’autorizzazione di Peter Beyerhaus – nel corso di una conferenza tenuta dal dott. Lorenzo Bertocchi al Convegno realizzato a Roma lo scorso 1 ottobre “Pellegrini della Verità verso Assisi. Un approfondimento sui passi di Benedetto XVI”, Atti in corso di pubblicazione (ed. Fede e Cultura).

San Francesco, uomo di Dio – un saggio storico contro le deformazioni ideologiche

Il Serafico Padre fu davvero buonista, pacifista, ecumenista, filoislamico, ecologista, libertario e rivoluzionario?

di Domenico Bonvegna

Alla vigilia dell’incontro ad Assisi di tutte le religioni, appare opportuna una riflessione sull’identità di S. Francesco. “Lungo il XX secolo, infatti, – scrive Vignelli nella presentazione del libro San Francesco antimoderno (Ed. Fede & Cultura) – lo ‘spirito del tempo’ e le ideologie alla moda hanno gravemente deformato e strumentalizzato il nostro santo, sovrapponendogli una falsa immagine modernizzata: quella di un Francesco ‘buonista’, ‘pacifista’, ‘ecumenista’, ‘filoislamico’, ‘ecologista’, ‘libertario e rivoluzionario’ Non è la prima volta che nella Storia i santi ma anche la stessa figura di Nostro Signore Gesù Cristo vengono spogliati della vera luce e gloria della santità. Vengono usati come pretesto per parlare di altro, per insegnare un altro Vangelo e magari per favorire un progetto anticristiano.  Forse il caso più grave di falsificazione è senz’altro toccato a S. Francesco di Assisi, figlio di Pietro di Bernardone e di Pica di Bourlemont. Un processo falsificatorio perseguito  in campo cattolico, dai modernisti e infine oggi dai cosiddetti progressisti.  In pratica si cerca di applicare alla “questione francescana”, “la modernistica contrapposizione tra il ‘Cristo della Storia’ e il ‘Cristo della fede’ e tra la ‘Chiesa primitiva’ e la ‘Chiesa istituzionale’”. Secondo questa tesi il “Francesco della Storia” fu un personaggio che tentò di creare una fraternità di “spiriti liberi” che doveva permettere alla comunità cristiana di liberarsi dalle istituzioni ecclesiastiche, bisognava tornare al primitivo comunismo e realizzare una fratellanza globale e cosmica. In pratica scrive Vignelli, “lungo tutto il XX secolo, molti biografi o apologeti del santo l’hanno trasformato in un precursore delle ultime mode culturali: ossia del ‘buonismo’ insulso, del pacifismo arrendista, dell’ecumenismo relativista, dell’ecologismo animalista, della ‘teologia della liberazione’ e del tribalismo anarcoide”. E’ una manovra che ormai è pienamente riuscita , così una falsità, se ripetuta in continuazione senza essere adeguatamente contrastata, finisce spesso con l’essere creduta come vera, almeno per pigrizia e conformismo. “E così – continua Vignelli- quella finta immagine , che all’inizio del secolo XX era diffusa solo fra protestanti e modernisti, è oggi diventata il ritratto ufficioso – se non proprio ufficiale – del santo, quale viene diffuso dalla maggioranza dei predicatori, storici e teologi cattolici, anche se francescani, anzi soprattutto se francescani”. Una immagine diffusa soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa (romanzi, fumetti, musical, commedie, film e telefilm) i quali propinano alle folle un Francesco melenso e sentimentale, smidollato e idiota, scettico in campo dogmatico e permissivo in campo morale, ‘aperto al mondo’ ed ‘amico di tutti’. In conclusione ormai per la maggior parte dei cattolici, S. Francesco è un precursore del naturalismo, apostolo di una “carità” tutta umana e terrena, che prescinde dalla verità. Ma basta informarsi andare alle fonti storiche francescane e tutte le falsità spudorate saranno smentite. Nel 1921 il Papa Benedetto XV già ammoniva: “Quel personaggio di Assisi, d’invenzione prettamente modernista, che recentemente alcuni ci presentano come poco rispettoso della Sede apostolica e come campione di un vago e vuoto ascetismo, non può essere identificato con Francesco né considerato come un santo”. E più avanti ammoniva: “Chi apprezza il valore del santo, deve apprezzarne anche l’ossequio e il culto dati a Dio; perciò o inizi ad imitare quello che loda, o smetta di lodare quello che non vuole imitare; chi ammira i meriti dei santi dei santi, deve anche segnalarsi per santità di vita”.

San Francesco non fu “buonista”. E’ la principale deformazione alla quale il santo è stato sottoposto. S. Francesco avrebbe inventato un nuovo modello di apostolato, quello di “mera ‘testimonianza’ propositiva, rifiutandosi di ricorrere non solo ad ogni tipo di polemica o condanna, ma anche d’imposizione o divieto”. Il santo rifuggiva ogni compromesso e denunciava il male in concreto, predicava il timore di Dio e minacciava castighi infernali. Era molto severo nei confronti dei suoi stessi frati, intransigente nella disciplina religiosa.

San Francesco non fu pacifista. Per il mondo progressista cattolico, S. Francesco è il precursore del moderno pacifismo, promotore del disarmo unilaterale, dell’obiezione di coscienza “sia alle armi che alla pena di morte”. Ma la pace che auspicava e predicava il Serafico era quella spirituale assicurata dalla conversione della creatura al Creatore. La pace francescana non è la pace che l’uomo trova in sé stesso, ma la pace che l’uomo trova in Dio. Secondo Vignelli, non risulta che Francesco abbia mai contestato il servizio militare. “Egli ben sapeva che combattere una guerra giusta non contraddice lo spirito caritatevole e pacifico del Cristianesimo(…) Il santo amava presentarsi come un “soldato di Cristo” e un “araldo del gran Re”. La regola francescana intendeva proibire non la guerra come tale, ma solamente le guerre ingiuste. S. Francesco non può essere arruolato al vile ed opportunistico arrendismo tipico degli odierni pacifisti fanatici, anche sedicenti cattolici, che si proclamano ‘adoratori della pace’ e promuovono marce a senso unico inalberando una multicolore ‘bandiera della pace’.

San Francesco non fu contro le Crociate. Non essendo pacifista, il Serafico non fu nemmeno contrario alle Crociate. Risulta invece che Francesco provasse un sincero entusiasmo per le Crociate ed ammirazione per le cavalleresche imprese riferite dalla letteratura dell’epoca. S. Francesco partecipò alla quinta Crociata, quella proclamata nel 1213 da Papa Innocenzo III, per poter predicare ai musulmani ed assistere caritatevolmente i crociati nei pericoli fisici e soprattutto spirituali cui andavano incontro. Francesco la chiamava “la santa impresa”, considerandola “pienamente lecita, valutandola come un intervento di legittima difesa militare di quei luoghi sacri e di quei popoli del vicino oriente un tempo cristianizzati dal sangue dei martiri e dal sudore dei confessori della fede”. Del resto Francesco giustificò la Crociata proprio in faccia al sultano musulmano dell’Egitto. Ed è falsa quella tesi che sostengono alcuni che S. Francesco fece una scelta missionaria in opposizione a quella crociata. Era inconcepibile una contrapposizione tra Missione e Crociata. “La vocazione del missionario e quella del crociato erano anzi considerate come apparentate, in quanto derivavano entrambe dalla comune prospettiva della cristiana testimonianza mediante il pellegrinaggio e la disposizione al martirio”.

San Francesco non fu ecumenista. Nel suo Testamento, egli esige che i frati sospettati di eresia o scisma vengano imprigionati e consegnati al cardinale protettore dell’Ordine per essere inquisiti. I Papi del XIII secolo, per promuovere la Santa Romana Inquisizione contro l’eresia, ricorsero non solo all’Ordine domenicano, ma talvolta anche a quello francescano. La frase consacrata dalla Tradizione: “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”, era ben presente in Francesco. A questo proposito è attuale l’ammonizione di Pio XI: “ah quanto male fanno e quanto si allontanano dalla conoscenza dell’Assisiate coloro che, per accondiscendere alle proprie fantasie ed errori, s’immaginano e s’inventano – incredibile a dirsi! – un Francesco insofferente della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della dottrina della fede, anzi precursore ed araldo di quella pluralistica e falsa libertà che si è cominciato ad esaltare agli albori dell’età moderna, e che tanto danno ha causato alla Chiesa ed alla società civile”.

San Francesco non fu filo-islamico. Giacomo da Vitry, amico del Serafico e testimone dei fatti, ha scritto che Francesco di fronte al sultano d’Egitto ha avuto un atteggiamento di perfezione apostolica. La sua predica riassume e riunisce “i tre elementi- chiave necessari per il trionfo del cristianesimo: rinnovamento morale e spirituale attraverso una vita di ascesi, di semplicità e di umiltà; (…)la predicazione, la propagazione della parola efficace, parola che infiamma le folle e le porta alla conversione; (…) il confronto (militare) con i saraceni, mirante a soccorrere la Chiesa orientale desolata che cerca la sua liberazione”.

San Francesco non fu ecologista. E’ la deformazione più recente. In pratica esagerando l’amore per le creature di S. Francesco, viene presentato come un profeta del moderno ecologismo dedito alla ‘salvaguardia del creato’, ma anche come un vegetariano o animalista.
Alcuni addirittura lo dipingono come una sorta di naturista, cioè uno che rinuncia ai beni materiali, alla civiltà, compresi i vestiti, fino ad arrivare a presentarlo come un contestatore hippy, in un promotore del tribalismo e magari anche del nudismo.

Il misticismo di S. Francesco non si può per nulla accostare alla perversa idolatria della natura tipica di chi venera Gea (o Gaia) al posto di Dio. Al contrario egli considerava la terra come una dimora provvisoria, per poi raggiungere la vera Patria celeste. Scrive il beato Tommaso da Celano, fin dalla sua conversione, “la bellezza dei campi e l’amenità dei vigneti, e tutte le altre cose che comunemente saziano gli occhi degli uomini, avevano perduto ogni attrattiva per lui. Non senza stupore egli si rese conto dell’improvviso cambiamento avvenuto in se stesso e cominciò a ritenere sommamente stolto chi si perde dietro simili cose”.

Anche nel celebre Cantico delle creature, poema tanto frainteso quanto celebrato, la bellezza delle creature sono viste in corrispondenza della bellezza suprema cioè di Dio. Scrive don Divo Barsotti: “(…)le creature sono poste al servizio dell’uomo;(…) se Dio è lodato con tutte le sue creature, è anche lodato per il dono di ogni creatura all’uomo(…). E’ il peccato dell’uomo che ha diviso e opposto Dio e la creazione”.

In pratica S. Francesco considerava gli animali, i vegetali e i minerali non come idoli, “ma semplicemente come creature che, con la loro bellezza e col loro simbolismo naturale e soprannaturale, possono facilmente avviarci alla conoscenza e all’amore di Dio in Cristo”. Gli animalisti non possono rivendicare S. Francesco come loro patrono, quasi ch’egli fosse come gli indù che considerano gli animali sacri e intoccabili. Non considerò mai gli animali suoi pari, ma volle esercitare su di loro una vera e propria autorità. Non possiamo nemmeno arruolarlo tra i vegetariani, S. Francesco non ha mai condannato il consumo delle carni o la caccia o l’impiego degli animali per aiutare l’uomo.

San Francesco non fu un libertario, non fu un ribelle, un agitatore libertario, un anarchico, un tribale, precursore di quell’irrazionale rifiuto della civiltà che si è recentemente espresso in fenomeni di patologia sociale sessantottina o post-sessantottina, come i ‘figli dei fiori’, gli hippy, i frak, i punk, gli ‘indiani metropolitani’ e i no-global. Certamente le fonti storiche rivelano che se i frati minori avevano rinunciato ai beni terreni, non avevano per niente rifiutato quelli spirituali, i valori morali e sociali, tantomeno le conquiste della Civiltà cristiana. La “libertà e la letizia francescane sono il risultato – scrive Vignelli – di chi ha messo ordine nella propria anima e nella propria vita, con una rigorosa ed aspra ascesi, con una lotta contro gl’istinti che ci seducono, disorientano e schiavizzano, con una disciplina interiore ed esteriore capace di dominare le idee, tendenze e passioni disordinate”.

San Francesco non fu rivoluzionario. Sicuramente San Francesco non fu un antesignano della “teologia della liberazione”, non fu il precursore del pacifismo o il paladino della violenta rivolta degli “oppressi” contro il capitalismo. Non è un pauperista rivoluzionario, “come quei movimenti che contestano l”ordine costituito” e combattono la proprietà privata e le conseguenti disuguaglianze sociali e gerarchiche politiche, sia ecclesiastiche che civili, nel tentativo d’imporre il collettivismo egualitario sognato dalle “comunità di base” latino-americane o afro-asiatiche”.

Certamente S. Francesco non istigò mai alla ribellione ecclesiale, non volle mai contrapporre la propria confraternita alla gerarchia o al semplice clero, come se fosse una setta di puri ed eletti destinata ad animare una Ecclesia spiritualis destinata a sostituirsi alla Ecclesia carnalis. Egli piuttosto volle inserirsi nella Chiesa istituzionale con un ruolo di servizio e di collaborazione e soprattutto di supplenza riformatrice: “noi siamo mandati – diceva – in aiuto al clero, per la salvezza delle anime, in modo da supplire alle sue mancanze”.

Non può essere definito rivoluzionario chi inizia la sua missione obbedendo al celebre comando del Crocifisso: “Va’ e restaura la mia casa!”. Francesco non istigò mai i poveri alla rivolta. “A differenza dei pauperisti eretici o eretizzanti come Valdo, egli non era ossessionato dal problema della povertà economica ma semmai da quello della povertà spirituale, tanto da ripetere spesso che bisogna preoccuparsi non della condizione terrena bensì del destino ultraterreno”.

Francesco esortò sempre gli sfortunati a pazientare dignitosamente e ad ubbidire docilmente, inculcando non la superbia dei diritti ma l’umiltà dei doveri. Egli non predicò nessun tipo di lotta di classe, anzi cercò sempre di garantire la concordia e l’armoniosa collaborazione fra signori e sudditi. S. Francesco non ha mai messo in discussione l’autorità dei governanti, li esortava a giudicare i sudditi con onestà, prudenza e soprattutto con misericordia. Mentre sulla povertà, “lo spirito francescano non pretendeva d’imporre la povertà come regola sociale a chi non può o non vuole accettarla, ma esortava a dare l’esempio di un assoluto distacco dalle ricchezze per inspirare in tutti, ricchi e poveri, un soprannaturale disprezzo delle vanità terrene”. Inoltre c’era in Francesco uno stretto legame tra elemosina e proprietà, non si può donare se non esiste la proprietà.

San Francesco non fu egualitario, non aveva un animo invidioso, ribelle, anarchico. Il suo legame con la classe nobiliare può meravigliare chi è vittima del pregiudizio progressista, secondo il quale a seguire Francesco sarebbero stati poveracci, emarginati, ignoranti e magari deficienti. Vignelli affidandosi alle testimonianze di Tommaso da Celano e Giacomo da Vitry, fa un lungo elenco dei primi seguaci dell’Ordine dove spiccano rampolli di nobili e illustri famiglie italiane. Ricorda Pio XI: “non solo pontefici, cardinali e vescovi (hanno ricevuto) le insegne del Terz’ordine, ma anche re e principi, alcuni dei quali elevati alla gloria della santità, che dallo spirito francescano vennero nutriti di divina sapienza; ne derivò che le più elette virtù tornarono ad essere stimate e vissute nella società civile, insomma rinnovando la faccia della terra”.

Infine San Francesco non rifiutò la cultura. E’ un ultimo pregiudizio, “il quale Francesco sarebbe stato un tipo bizzarro che avrebbe voluto raccogliere nella sua fraternitas solo uomini sempliciotti e ignoranti, se non proprio idioti e sciocchi…”. E’ una falsità grossolana, perché anche qui basta considerare come l’Ordine, fin dal suo inizio, accolse o formò alcune fra le migliori menti dell’epoca, naturalmente non c’è lo spazio per fare un elenco dettagliato. Molti erano docenti universitari, che per gli studenti dell’epoca, scrive Vignelli, “(…)doveva essere uno spettacolo edificante vedere quei loro docenti insegnare dalle cattedre delle prestigiose università di Oxford o della Sorbona, vestiti con un misero saio e a piedi nudi, per poi andare a svolgere umili lavori o a mendicare per la città…”

L’Italia, la stessa Europa, deve molto a S. Francesco, dal suo Ordine e Terz’Ordine germogliarono la pace domestica e la tranquillità pubblica, l’integrità dei costumi e la mansuetudine, il retto uso e tutela della proprietà, fattori tutti di civiltà e di benessere.

Segni visibili

Tre nuovi santi nella Giornata missionaria mondiale

Radio Vaticana – Redazione SME

La Chiesa oggi ha due motivi di ringraziamento e di supplica a Dio: la celebrazione della Giornata missionaria mondiale e la canonizzazione di tre nuovi santi. Lo ha ricordato, stamattina, Benedetto XVI, nella messa nella quale sono stati elevati agli onori degli altari il vescovo Guido Maria Conforti, il sacerdote Luigi Guanella e la religiosa Bonifacia Rodríguez de Castro. All’Angelus, poi, ha ricordato la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, che si celebra il prossimo giovedì ad Assisi.

Modello per tutti i credenti. Commentando il Vangelo odierno, il Papa ha osservato: “Gesù lascia intendere che la carità verso il prossimo è importante quanto l’amore a Dio. Infatti, il segno visibile che il cristiano può mostrare per testimoniare al mondo l’amore di Dio è l’amore ai fratelli”. “Quanto provvidenziale risulta allora il fatto che proprio oggi la Chiesa – ha aggiunto – indichi a tutti i suoi membri tre nuovi santi che si sono lasciati trasformare dalla carità divina e ad essa hanno improntato l’intera loro esistenza. In diverse situazioni e con diversi carismi, essi hanno amato il Signore con tutto il cuore e il prossimo come se stessi ‘così da diventare modello per tutti i credenti’”.

Fare la volontà di Dio. San Guido Maria Conforti, già da fanciullo, “diede prova di un carattere fermo nel seguire la volontà di Dio, nel corrispondere in tutto a quella caritas Christi che, nella contemplazione del Crocifisso, lo attraeva a sé. Egli sentì forte l’urgenza di annunciare questo amore a quanti non ne avevano ancora ricevuto l’annuncio, e il motto ‘Caritas Christi urget nos’ sintetizza il programma dell’Istituto missionario a cui egli, appena trentenne, diede vita: una famiglia religiosa posta interamente a servizio dell’evangelizzazione, sotto il patrocinio del grande apostolo dell’Oriente san Francesco Saverio”. Vescovo prima a Ravenna e poi a Parma, “egli seppe accettare ogni situazione con docilità, accogliendola come indicazione del cammino tracciato per lui dalla provvidenza divina; in ogni circostanza, anche nelle sconfitte più mortificanti, seppe riconoscere il disegno di Dio, che lo guidava ad edificare il suo Regno soprattutto nella rinuncia a sé stesso e nell’accettazione quotidiana della sua volontà”. Egli “per primo sperimentò e testimoniò quello che insegnava ai suoi missionari, che cioè la perfezione consiste nel fare la volontà di Dio, sul modello di Gesù Crocifisso”.

Profeta di carità. “La testimonianza umana e spirituale di san Luigi Guanella è per tutta la Chiesa – ha dichiarato il Pontefice – un particolare dono di grazia. Durante la sua esistenza terrena egli ha vissuto con coraggio e determinazione il Vangelo della Carità”. Grazie alla “profonda e continua unione con Cristo, nella contemplazione del suo amore”, don Guanella, guidato dalla Provvidenza divina, “è diventato compagno e maestro, conforto e sollievo dei più poveri e dei più deboli. L’amore di Dio animava in lui il desiderio del bene per le persone che gli erano affidate, nella concretezza del vivere quotidiano. Premurosa attenzione poneva al cammino di ognuno”. Di qui la lode al Signore “perché in san Luigi Guanella ci ha dato un profeta e un apostolo della carità”. Questo nuovo Santo della carità sia per tutti “modello di profonda e feconda sintesi tra contemplazione e azione”. “San Luigi Guanella – ha detto il Santo Padre – ci ottenga di crescere nell’amicizia con il Signore per essere nel nostro tempo portatori della pienezza dell’amore di Dio, per promuovere la vita in ogni sua manifestazione e condizione, e far sì che la società umana diventi sempre più la famiglia dei figli di Dio”.

Semplicità evangelica. Santa Bonifacia Rodríguez de Castro dall’inizio mise insieme la sua scelta di seguire Cristo con il diligente lavoro quotidiano. “Lavorare, come aveva fatto sin da bambina, non era solo un modo per non pesare a nessuno, ma anche perché riteneva di avere la libertà di realizzare la sua vocazione, e le dava al tempo stesso la possibilità di attrarre e formare altre donne, che in officina possono incontrare Dio e ascoltare la sua chiamata amorevole”, ha affermato Benedetto XVI. Così nascono “le Serve di San Giuseppe, nell’umiltà e semplicità evangelica, che nella casa di Nazaret si presenta come scuola di vita cristiana”. Madre Bonifacia, che “si consacra con impegno all’apostolato e comincia a ottenere i primi frutti del suo lavoro”, vive anche l’“esperienza dell’abbandono, del rifiuto proprio dalle sue discepole e in quello apprende una nuova dimensione della sequela di Cristo: la Croce”. Con l’intercessione della nuova santa, il Papa ha pregato Dio “per tutti i lavoratori, soprattutto per quelli impegnati nei lavori più modesti”.

Angelus. All’Angelus Benedetto XVI, dopo aver rivolto un “pensiero di speciale affetto e incoraggiamento” per i membri degli Istituti fondati da San Guido Maria Conforti e San Luigi Guanella – i Missionari Saveriani, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza e i Servi della Carità -, ha osservato: “Ancora una volta l’Italia ha offerto alla Chiesa e al mondo luminosi testimoni del Vangelo; rendiamone lode a Dio e preghiamo perché in questa nazione la fede non cessi di rinnovarsi e di produrre buoni frutti”. Così si è rivolto anche alle Serve di San Giuseppe, fondate da Bonifacia Rodríguez de Castro: “Che l’esempio e l’intercessione di queste illustri figure per la Chiesa spingano tutti a rinnovare il loro impegno di vivere di tutto cuore la loro fede in Cristo e di testimoniarlo nei diversi ambiti della società”, è stato l’auspicio. Salutando i pellegrini polacchi, ha ricordato che “ieri, insieme alla diocesi di Roma e alla Chiesa in Polonia abbiamo commemorato nella liturgia il beato Giovanni Paolo II, e oggi voi avete voluto partecipare alla canonizzazione dei tre nuovi Santi. Alla loro protezione affido voi e le vostre famiglie”. In italiano ha affidato all’intercessione della Vergine Maria “la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo: un pellegrinaggio ad Assisi, a 25 anni da quello convocato dal beato Giovanni Paolo II”.

Totus tuus, per sempre

Nella memoria liturgica del Beato Giovanni Paolo II

di P. Mario Piatti icms

Giovanni Paolo II è stato un Papa santo non per l’impatto mediatico o per la sua straordinaria capacità di comunicazione, ma per il mistero avvenuto, di giorno in giorno, nel suo cuore, trasformato nel Cuore di Gesù e di Maria Santissima. Santo, non per aver conquistato la simpatia della gente, ma essersi lasciato conquistare da Cristo.

Nelle vivaci discussioni, che si intrecciano tra Gesù e i suoi interlocutori – così come sono riportate, in particolare, nel Vangelo di Giovanni – si delinea, con crescente chiarezza, la reale identità del Signore. Egli è vero uomo, del tutto “imparentato” con noi, in tutta la fragilità della nostra condizione (escluso il peccato, come preciserà la Lettera agli Ebrei); e, d’altra parte, appartiene totalmente al mondo di Dio: parla del Padre con una familiarità che sconcerta i suoi avversari; compie “segni” e prodigi attribuibili soltanto a Dio. Con sottile ironia, nel quarto Vangelo, proprio gli oppositori più tenaci e accaniti, con le loro provocatorie domande e con le loro contestazioni, contribuiscono a farci conoscere la persona di Gesù, rivelandone la identità, di vero Uomo e di vero Dio. “Chi sei tu? Che dici di te stesso?” domandano al Signore. “Quali sono le tue origini? Con quale autorità operi?”.

Noi pure siamo invitati a riflettere e a interrogarci sulla nostra “ascendenza”, sul “ceppo santo” da cui proveniamo. C’è qualcosa, infatti, anche nella nostra vita, che non è quantificabile secondo i criteri e i parametri umani e terreni; qualcosa, cioè, che non si può circoscrivere dentro i limiti della nostra intelligenza e che sfugge alle indagini più accurate, né si può ricondurre semplicemente ai nostri genitori o agli scarni dati registrati all’anagrafe. Si tratta di quella scintilla, unica e irripetibile, di Provvidenza e di Amore, che ci ha generati, per la quale siamo quello che siamo, al di là – o meglio attraverso – l’intreccio della nostra umanità, fatta di ossa, muscoli, fasci di desideri, di pulsioni e di passioni, che segnano e condizionano indiscutibilmente il nostro essere, ma non riescono a imprigionarlo né a esaurirlo. Il cammino della nostra esistenza è come un progressivo ritorno alla sorgente, da cui siamo scaturiti. È la riscoperta delle nostre radici, è un “reditus”, cioè un ritorno, al seno di Colui che ci ha creati e che ci attende nella eternità.

Giovanni Paolo II, ormai dichiarato beato, volle apporre l’espressione “Totus tuus” sul proprio stemma pontificio: Totus tuus, cioè tutto della Vergine, possesso di quel Cuore benedetto e Immacolato, che è stato tutto di Dio e che, perciò, si è totalmente donato anche ai suoi figli. Quella è la “ascendenza” più vera, più umana, più santa: la Vergine Maria. Quella è la beata radice che ci ha generati, ai piedi dell’albero della Croce, e che continua a germinare nella storia, visitandoci come Grazia e come luce di cristiana speranza.

“Chi vede me vede il Padre”, aveva detto Gesù ai suoi discepoli. Nei tratti di quel Papa indimenticabile si potevano scorgere i lineamenti propri della nostra Madre celeste: la sua ineffabile bontà, la sua dolcezza, il suo limpido candore, la sua sublime carità. “Totus tuus”: tanto da farsi piccolo con i più piccoli, teneramente amati e ricercati sempre, paternamente; “totus tuus”, per essere solidale con i poveri, con gli ammalati, con le vittime della violenza, della guerra, delle sciagure naturali; “totus tuus”, per rendersi “compagno di viaggio” dei giovani, ai quali il Papa dedicò ampio spazio di tempo e le sue migliori energie e con i quali condivise straordinarie esperienze, in tutti i continenti. “Totus tuus” per camminare, fianco a fianco, con le famiglie della odierna società, spesso in crisi e bisognose di riferimenti certi e di guide sagge e illuminate.

Il Cuore di Cristo e il Cuore di sua Madre sono il solo criterio di lettura credibile per provare a comprendere la vita di Giovanni Paolo II. La santità è un mistero inafferrabile agli occhi del mondo: qualcosa si percepisce all’esterno, se ne colgono i frutti, ma è infinitamente di più quanto resta nascosto, come radici di amore che affondano nel buon terreno della Grazia. È stato un Papa santo non per l’impatto mediatico, per la sua straordinaria capacità di comunicazione, ma per il mistero avvenuto di giorno in giorno nel suo cuore, trasformato nel Cuore di Gesù. Santo, non per aver conquistato la simpatia della gente, ma essersi lasciato conquistare da Cristo.

In un mondo che si emoziona facilmente, ma che dimentica in fretta, è quanto mai necessario imparare la lezione di vita e di fede di Papa Wojtyla. La risposta più bella, alla travolgente onda di amore che egli ha prodotto nella storia, è il rinnovato impegno della nostra vita. Se anche noi ci lasciamo conquistare da Cristo; se, come quel Vescovo, venuto nel 1978 “da un paese lontano”, anche ciascuno di noi – per quanto peccatore – può dire “Totus tuus” alla Vergine Maria, allora siamo sulla buona strada e l’esempio, il sacrificio eroico, il servizio instancabile alla Chiesa e al mondo di Giovanni Paolo II non saranno stati vani.